Anna Pizzimenti

Fra le pieghe delle pagine della storia, di quelle che si chiudono a ventaglio anche sulla memoria, si cela una fitta trama di racconti, che narrano di eroi caduti sul campo del lavoro.

Eroi vestiti di fatica e di pelle ispessita dal sole, dalle braccia tornite dalla zappa e dalla zolla, dalla schiena curvata da un raccolto, da destinare al padrone di turno, riservando per sé miseria e sogni.

E’ la storia dei contadini del Sud Italia, ma, più in generale, è il ritratto color seppia delle condizioni di lavoro degli abitanti del Meridione. Una storia dimenticata, o solo incidenter tantum menzionata, nella Giornata dedicata dal 1890 a tutti i lavoratori, proiettando la percezione che il lavoro da tutelare sia solo quello nelle fabbriche, quello per le otto ore giornaliere, per il contenimento delle quali, negli anni successivi alla Rivoluzione Industriale, gli operai si coalizzarono, erigendosi a Movimento per il riconoscimento dei propri diritti e di condizioni di lavoro più umane.

Lavoratori di serie A e lavoratori di serie B?

Sembrerebbe di si, se, a distanza di 73 anni, si continua a non dare il giusto peso alla strage di Portella della Ginestra, avvenuta in Sicilia proprio il 1° maggio 1947, e si racconta ancora oggi solo della grande manifestazione di Chicago del 1887.

E’ un nuovo furto della nostra memoria storica e della nostra identità, forse anche della nostra dignità di uomini e donne del Sud.

Portella della Ginestra è una località montana che ricade nel comune di Piana degli Albanesi, nella provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di contadini si raduna lì per festeggiare nuovamente, dopo il ritorno della democrazia, la festa dei lavoratori. Ma nulla in quell’assembramento di uomini, donne e bambini può fare pensare alle moderne scampagnate o alle gite fuori porta: sono contadini, che si riuniscono per manifestare contro il latifondismo e chiedere che le terre incolte vengano loro assegnate, in ottemperanza dei Decreti Gullo. Su quella folla, una banda di criminali, capeggiata da Salvatore Giuliano, spara a sangue freddo, cagionando la morte, nell’immediatezza, di undici persone, fra cui una bambina di otto anni e tre adolescenti, a cui si aggiungono altre quattro vittime, morte in seguito alle ferite riportate.

Si è soliti ricordare questa strage in occasione della “Giornata delle vittime della mafia”, perché di un barbaro assalto mafioso si trattò, ma frettolosamente si sorvola sugli antefatti che diedero occasione a quell’agguato e che si ricollegano alle misere condizioni dei contadini meridionali e ad un progetto per l’emancipazione e per l’affrancamento dal bisogno, che costituivano la ratio dei Decreti Gullo su richiamati.

E’ la storia dell’illusoria “riforma agraria”, avviata, dopo la caduta del fascismo, dall’allora Ministro dell’Agricoltura nel secondo gabinetto Badoglio, il cosentino Fausto Gullo, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945: il sogno delle concessioni ai contadini delle terre incolte, pietra miliare di un percorso di riscatto dalla povertà e di partecipazione effettiva alla rinata democrazia, prima tappa verso la costruzione di quella Repubblica, che l’art. 1 della Costituzione vorrà fondata sul “lavoro”. Cosa importa se di lavoro in fabbrica o lavoro nei propri campi si tratta? E’ il lavoro l’unico denominatore che rende tutti i cittadini titolari di “pari dignità”.

Un sogno che svanisce proprio nei giorni in cui la neonata Repubblica Italiana emette i suoi primi vagiti, in cui Gullo viene sostituito all’Agricoltura dal democristiano Antonio Segni e in cui i latifondisti rivendicano i propri diritti su quelle terre, che i “cafoni” già sentivano proprie e a cui “mai” i signori le avrebbero cedute. Sono i giorni del barbaro assassinio di Giuditta Levato, la trentunenne contadina che, insorta a Calabricata contro quell’usurpazione della terra, muore, incinta di sette mesi, raggiunta da un colpo di fucile al ventre. E’ il 28 novembre 1946.

Muore innocente, come qualche mese dopo a Portella della Ginestra morirà innocente la ventritreenne Vita Dorangricchia, il cui nome ho sentito pronunciare per la prima volta da un’alunna della Scuola Primaria, ad una manifestazione in ricordo delle vittime di mafia.

Ricorrere unicamente e univocamente a questa etichetta, vittime di mafia, equivale a commettere un adulterio storico! Come osserva Romano Pitaro ne “L’Ape Furibonda”, “quel decennio di lotte contadine sfociato a Calabricata con un assassinio cui ne seguirono altri  ancora più tragici (l’Autore ricorda Portella della Ginestra e Melissa, n.d.s.) ebbe un infausto epilogo, come scrisse il dirigente comunista Paolo Cinanni: «il fallimento della riforma agraria e l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei ghetti dell’immigrazione»”.

Da lì iniziò quel tragico capitolo della storia dei giovani del Sud, imboniti dall’inno degasperiano “Imparate una lingua e andate all’estero”, che avrebbe avuto un decorso e un’evoluzione certamente diversi se a quel bivio, settantacinque anni fa, fosse stata fatta la scelta di realizzare la dignità dell’Uomo, attraverso la dignità di tutti i lavoratori.

Se si condivide oggi l’idea che la memoria non è “un deposito dove sono ammassati inerti i fatti del passato, ma è una miccia che accende il presente”, che ci consente di vivere “il futuro come promessa”, come disse Raniero La Valle in un suo discorso ora pubblicato sulle colonne di Questione Giustizia, commemorare il primo maggio significa riscoprire il significato e il valore che noi, uomini e donne del Sud, nell’anno 2021, diamo alla parola “lavoro”.

E’ la storia dei nostri contadini, è la nostra storia: dobbiamo ricordarla e onorarla, per, se ancora possibile, scrivere con parole nuove il nostro futuro.