Bakhita Ranieri

Sembra un sogno ma a pochi km da noi si trova un parco archeologico in località Roccelletta di Borgia, vicino la S.S. 106 che collega Crotone a Reggio Calabria. Circondato da un folto uliveto si estende per 35 ettari di terreno. Al suo interno si trovano la Basilica di Santa Maria della Roccella, il Foro romano che abbraccia molti secoli dal III a.C. al VI d.C. in cui sono collocati gli edifici principali della colonia romana, il teatro, datato al I sec. d.C. in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali, rimasto incompleto, l’anfiteatro romano datato al II sec. d.C., messo in luce durante uno scavo di pochi anni fa e la necropoli bizantina.

Da lì sarà piacevole, tempo permettendo, osservare l’intera costa che abbraccia Catanzaro Lido fino a Soverato. Il parco ospita anche due musei, quello del frantoio, in cui sono istallate le macchine che servivano per produrre l’olio, in uso fino agli anni cinquanta e quello archeologico che si sviluppa su due piani composto da 11 sale con i reperti rinvenuti durante le campagne di scavo dal 1975 fino a qualche anno fa.

Immergiamoci quindi in questa passeggiata virtuale con il tepore che ci regala la primavera.

Roccelletta di Borgia prende il nome dalla Chiesa di Santa Maria della Roccella, che domina il territorio con la sua mole di mattoni rossi in prossimità del mare, non lontano dal fiume Corace. Di epoca bizantino-normanna è costituita da un’ampia navata con un tetto a cassettoni in legno collegato da alcuni gradini al braccio sopraelevato coperto con volte in muratura.

Il vasto presbiterio termina con una profonda abside affiancata da due absidiole più piccole che concludono ambienti a pianta quadrata. Nell’abside centrale si aprono tre nicchie, sormontate da un’ampia finestra, finestre si aprono anche nelle due absidi laterali. Anche la navata è illuminata da una serie di finestre intervallate da archi ciechi con un motivo decorativo a doppia fascia di laterizi.  L’edificio venne in seguito trasformato in fortezza, sono stati rinvenuti infatti proiettili di pietra per catapulta. Nella seconda metà dell’800 fu impiegata come ricovero di animali e come cava di materiali da costruzione.

Continuiamo la nostra piacevole passeggiata e arriviamo al Foro, che costituisce la principale piazza di ogni città romana. È collocata all’incrocio tra due assi viari principali, il cardo maximus e il decumanus maximus formando uno spazio pubblico di forma rettangolare. Qui si affacciano i più importanti edifici a carattere religioso (il Capitolium) e amministrativo (Curia, Tabularium, Tribunal). Altri edifici pubblici sono il Macellum per attività commerciali e il Comitium di riunione per i cittadini. La piazza nel corso dei secoli, dopo il terremoto del IV sec. d.C. perse la funzione di centro della città e divenne un’area per insediamenti artigianali com’è dimostrato dal ritrovamento di una grande fornace per materiali ceramici e cava di materiali edilizi.

E adesso tutti in fila per il teatro. Le ricerche che misero in luce l’edificio furono svolte tra il 1965 e il 1975. Si data al I d.C. È realizzato imbrigliando la collina con muri concentrici in opus reticulatum. Costituito da un’orchestra semicircolare e da una cavea divisa in tre settori (maeniana): quello inferiore (imma cavea) diviso in 5 cunei da sei scalette accessibili attraverso un corridoio (praecinctio) che facilitava il passaggio degli spettatori; media cavea e quello superiore (summa cavea) diviso in 4 cunei da 5 scalaria. Ai lati estremi dell’imma cavea erano due accessi (aditi maximi) che consentivano l’ingresso alla cavea e all’orchestra. La scena veniva organizzata con la costruzione del muro del palco (pulpitum), del sipario (auleum) e dello sfondo fisso (scaena frons). Poiché gli spettacoli si svolgevano di giorno, era necessario per i romani proteggere gli spettatori dalla luce attraverso il velarium, una copertura mobile in tessuto fissata con travi e ancorata ai muri per mezzo di anelli.

Ed ora su per la collina, andiamo all’anfiteatro ad assistere a qualche combattimento sanguinoso. Qui si svolgevano anche le venationes e le naumachie. Era compito dei magistrati appena eletti, per fare carriera, offrire i ludi gladiatori alla città. Destinare i condannati, per reati comuni o politici ad bestias, era un modo per spettacolizzarne l’esecuzione ed imprimerla nella memoria degli spettatori. I gladiatori che combattevano erano prigionieri di guerra o schiavi addestrati in scuole apposite gestite dai lanistae che li preparavano ai diversi tipi di combattimento. Erano praticati combattimenti crudeli in cui uno dei due duellanti era disarmato. L’imperatore, interpretando l’umore del pubblico, poteva graziare lo sconfitto levando il pollice verso l’alto, non è un caso che nel nostro linguaggio comune il nostro l’ok corrisponda allo stesso simbolo, il gesto contrario significava la morte. La sera prima dello spettacolo, i gladiatori partecipavano ad un banchetto a cui assisteva un pubblico di affezionati. Una forma particolarmente crudele di spettacolo era quella in cui i condannati a morte erano impiegati per rappresentare episodi cruenti dei miti. Il nostro anfiteatro, si data al II sec. d.C. di dimensioni considerevoli, è l’unico finora attestato in Calabria ed uno dei pochi dell’Italia meridionale situato in una piccola valle. La parte occidentale dell’edificio sfrutta il pendio della collina, la parte orientale fu costruita in elevato con laterizi e più ordini di arcate sovrapposte inquadrate da lesene.

Le campagne di scavo sono state effettuate nel 2010-2011 l’impianto presenta muraglioni radiali in opus incertum cinte di mattoni basate su uno schema ellittico. Fu realizzato con strutture che creano vani trapezoidali privi di finestre ed in parte costruendo cassoni sotterranei su cui si impiantavano le gradinate della cavea. Sul settore orientale si trova una struttura cava, la parte più bassa fungeva da entrata (vomitorio). Ai lati erano posti due vomitori minori che permettevano agli spettatori di raggiungere i settori superiori della cavea. Della facciata esterna si conservano parti in opus incertum e opus testaceum. Tra fine III e IV secolo un settore abbandonato dell’edificio fu occupato da una sontuosa dimora posta su varie terrazze su cui si sovrappose tra V e VI secolo un’altra costruzione con poderose fondazioni che sfruttano in parte i resti dell’anfiteatro.

E la nostra ultima tappa esterna ci porta alla necropoli, la città dei morti. Per non invadere lo spazio sacro della città (pomerium), era collocato all’esterno. Si data tra il VI- VII sec. d.C. Presenta due fasi principali di utilizzo: la prima è caratterizzata da tombe a cassa rettangolare, orientate in direzione del mare, con sepolture dotate di corredo. Il defunto era appoggiato con il capo su una tegola rovesciata, le coperture erano in tegole o in grandi laterizi. La seconda fase è caratterizzata da tombe in nuda terra molto semplici prive di corredo. Le deposizioni potevano essere plurime ed i corredi costituiti da manufatti in metallo, vetro e ceramica. Tra le brocchette, che costituiscono il corredo più diffuso in questo periodo, è stato rinvenuto un prodotto tipicamente scolacense. Si tratta di una specie di bottiglia a due anse sia acroma che sovra dipinta in argilla rossa.

Siamo pronti per entrare nel Museo del Frantoio. La famiglia Mazza era proprietaria di numerosi latifondi sparsi nel comprensorio borgese in cui predominavano le colture del grano e dell’olivo.

La costruzione del trappito avvenne intorno al 1934, aveva un pavimento in materiale impermeabile e facilmente lavabile ottenuto con una gettata di cemento povero. Per la macinazione delle olive furono utilizzati i locali del pian terreno della casa padronale. Qui furono installate tre macine con ruote di granito per triturare le olive senza innalzare la temperatura della pasta e otto pressette a tre colonne. Sul lato lungo troviamo invece le pressette da 8 e l’impianto della pompa idraulica ubicata vicino l’ingresso. La conservazione dell’olio avviene nelle classiche giare di terracotta. La mole e le pressette venivano azionate dal motore detto “a testa calda” per il suo particolare sistema di accensione nel motore.

La nostra ultima tappa ci porta a visitare il Museo Archeologico inaugurato nel 2005. La storia di questo parco è scritta su due targhe poste sui cancelli di ingresso lungo la superstrada 106 Jonica. Le sale, disposte su due piani, si susseguono dalla prima, l’età preistorica e protostorica, includono l’età greca dell’antica colonia di Skylletion per passare all’età romana con testimonianze numismatiche, manufatti, marmi raffinati e togati che catturano i visitatori di tutto il mondo, per finire all’undicesima sala che racchiude la testimonianza del passaggio dell’età bizantina.

Ma non è finita qui. Mentre si passeggia alla scoperta di questi ruderi immersi in un’atmosfera che ci riporta indietro di molti secoli, abbiamo la possibilità di immergerci anche nella natura. Infatti possiamo trovare piante di quercia tipica della macchia mediterranea, utilizzata come legna da ardere; il pioppo usato nell’industria cartiera; il biancospino usato nell’industria farmaceutica grazie alle sue proprietà sedative e rilassanti; il leccio, uno dei migliori legni da ardere poiché produce molto calore e si consuma lentamente e tantissimi ulivi secolari della varietà Carolea, olivo sia da mensa che da olio. Poi ancora mandorli, peri selvatici.

E parliamo un po’ anche di leggenda per attrarre i più piccini partendo dalla storia di Atena e la Cornacchia. Tante cornacchie continuano a vivere qui.

Athena Skylletria è il nome di questa colonia greca fondata nel Golfo di Squillace e dedicata alla potente dea protettrice della città di Atene. Divenuta una colonia romana la città non smise di essere consacrata alla dea assumendo la denominazione di Minerva Scolacium.
Zeus divise le competenze fra gli dei al fine di definire un ordine e per farlo doveva necessariamente fare una serie di “matrimoni”, unendosi ad entità divine che gli conferissero dei valori e dei poteri di cui aveva bisogno. Si unì infatti con Metis, la Saggezza. Da questa unione stava per sarebbe nata Atena, la dea della Saggezza per eccellenza. Il Signore degli dei però pensò che la figlia avrebbe potuto essere più forte del padre e quindi il suo trono avrebbe potuto essere in pericolo. Chiese consiglio al Cielo Stellato e alla Terra che gli suggerirono di inghiottire Metis la sua sposa, in modo che Atena potesse nascere direttamente da lui. Finalmente nacque con le sembianze di una fanciulla, vestita con il peplo, dai lunghi capelli raccolti e con un elmo, uno scudo e una lancia è armata perché deve difendersi. Le è sacro l’albero d’ulivo perché è una pianta preziosa, nelle antiche monete ateniesi, è raffigurata insieme a una civetta, l’animale sacro.

Ci fu un tempo in cui la dea però aveva come suo animale sacro proprio la nera cornacchia. Cheronea era una principessa della Focide, figlia di un re, era una ragazza era molto bella, desiderata e seducente. Mentre passeggiava lungo la riva del mare, il dio degli oceani, Poseidone, potente fratello di Zeus, la vide e si innamorò. Prima cercò di sedurla con parole dolci, poi l’avvinghiò fra i suoi flutti cercando di possederla e farla sua con la violenza. La giovane stava per soccombere sotto la forza brutale di quel dio violento e impulsivo, quando le venne in aiuto la vergine Atena che per liberarla dalla morsa di Poseidone le donò le sembianze di un uccello nero. La fanciulla vide il suo peplo mutarsi in piume e le sue braccia in ali. La dea dunque la consolò e le concesse di divenire il suo animale sacro.

Atena aveva però un grande segreto. Era stato riferito ad Efesto, il dio del fuoco, che la vergine dea smaniasse d’amore per lui che era vecchio e zoppo. Appena saputo, l’assalì e tentò di farla sua. Per la guerriera non fu difficile respingere la forza brutale del dio, ma l’eccitazione del dio era tale il seme non cercato del dio del fuoco le cadde addosso e lei con sdegno si pulì con un panno di lana che gettò schifata a terra.

La Terra fecondò quel seme nacque così un essere mostruoso: Erittonio ad Atena non rimase altro che rinchiuderlo in una cesta e lo consegnò a tre fanciulle chiedendo di fare la guardia, ma vietando assolutamente di aprire quel paniere magico. Come supervisore mise la sua fidata cornacchia.

Le fanciulle obbedirono al volere della dea, ma quel paniere le incuriosiva molto perché dal suo interno si sentivano provenire gemiti e vagiti. Fu una delle tre a decidere di aprire la cesta, le altre non erano molto d’accordo ma la stranezza di quell’involucro misterioso le affascinava e le atterriva allo stesso tempo. La povera cornacchia si accorse di quello che stava accadendo ma non fece niente e stette a guardare anche lei lo strano contenuto della cesta magica. Quando aprirono il coperchio le fanciulle videro un bambino straordinario e mostruoso insieme per metà umano ma con le gambe formate da spire di serpenti e disgustose squame di rettili.

Solo a quel punto la cornacchia volò via per avvertire Atena, ma ormai era troppo tardi, aveva tradito la sua fiducia e niente la poteva riabilitare agli occhi della dea. La sua punizione fu dura la dea la ripudiò per sempre e da allora scelse come animale a lei sacro la civetta.

Se ho catturato la vostra attenzione allora dovete venire ad assaporare i colori e i profumi di questo luogo e vi assicuro che ne rimarrete entusiasti.