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La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso

di Maria Loscrì

“La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme”.

Nel pensiero di Guido Piovene è racchiuso il senso ontologico della manifestazione organizzata a Parghelia sabato 25 settembre, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio. Inclusività, condivisione, accessibilità al Patrimonio Culturale sono gli elementi compresi nello slogan “Tutti inclusi!” che, nell’evento proposto dal Club per l’UNESCO di Vibo Valentia, dalle associazioni AICEM e MedEXperience ha trovato piena declinazione. Protagoniste della serata, ospitata dall’amministrazione comunale di Parghelia e dalla Proloco, sono state le comunità Arbëreshe, degli Occitani e dei Greci di Calabria, minoranze linguistiche che nel nostro territorio regionale hanno saputo e sanno ancora raccontare una storia secolare di tradizioni, usi, costumi che, seppur con fatica e sacrificio, continua a vivere nell’era della globalizzazione.

Promotors, Calabria Condivisa, CSV Catanzaro, Crotne e Vibo Valentia sono le strutture del terzo settore che hanno supportato l’organizzazione dell’evento.

Amalia Alia, Vera Console e Antonio Salvatore Maio hanno letteralmente “incorniciato” la scena con le loro meravilgiose opere d’arte.

Con Paola Lentini, Cristina Anello, Raffaela Contartese, Antonio Sangeniti, Eugenio Mazzitelli, Maria Domenica Speranza.

                                         

 


Commemorare la festa del lavoro al Sud Italia

Anna Pizzimenti

Fra le pieghe delle pagine della storia, di quelle che si chiudono a ventaglio anche sulla memoria, si cela una fitta trama di racconti, che narrano di eroi caduti sul campo del lavoro.

Eroi vestiti di fatica e di pelle ispessita dal sole, dalle braccia tornite dalla zappa e dalla zolla, dalla schiena curvata da un raccolto, da destinare al padrone di turno, riservando per sé miseria e sogni.

E’ la storia dei contadini del Sud Italia, ma, più in generale, è il ritratto color seppia delle condizioni di lavoro degli abitanti del Meridione. Una storia dimenticata, o solo incidenter tantum menzionata, nella Giornata dedicata dal 1890 a tutti i lavoratori, proiettando la percezione che il lavoro da tutelare sia solo quello nelle fabbriche, quello per le otto ore giornaliere, per il contenimento delle quali, negli anni successivi alla Rivoluzione Industriale, gli operai si coalizzarono, erigendosi a Movimento per il riconoscimento dei propri diritti e di condizioni di lavoro più umane.

Lavoratori di serie A e lavoratori di serie B?

Sembrerebbe di si, se, a distanza di 73 anni, si continua a non dare il giusto peso alla strage di Portella della Ginestra, avvenuta in Sicilia proprio il 1° maggio 1947, e si racconta ancora oggi solo della grande manifestazione di Chicago del 1887.

E’ un nuovo furto della nostra memoria storica e della nostra identità, forse anche della nostra dignità di uomini e donne del Sud.

Portella della Ginestra è una località montana che ricade nel comune di Piana degli Albanesi, nella provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di contadini si raduna lì per festeggiare nuovamente, dopo il ritorno della democrazia, la festa dei lavoratori. Ma nulla in quell’assembramento di uomini, donne e bambini può fare pensare alle moderne scampagnate o alle gite fuori porta: sono contadini, che si riuniscono per manifestare contro il latifondismo e chiedere che le terre incolte vengano loro assegnate, in ottemperanza dei Decreti Gullo. Su quella folla, una banda di criminali, capeggiata da Salvatore Giuliano, spara a sangue freddo, cagionando la morte, nell’immediatezza, di undici persone, fra cui una bambina di otto anni e tre adolescenti, a cui si aggiungono altre quattro vittime, morte in seguito alle ferite riportate.

Si è soliti ricordare questa strage in occasione della “Giornata delle vittime della mafia”, perché di un barbaro assalto mafioso si trattò, ma frettolosamente si sorvola sugli antefatti che diedero occasione a quell’agguato e che si ricollegano alle misere condizioni dei contadini meridionali e ad un progetto per l’emancipazione e per l’affrancamento dal bisogno, che costituivano la ratio dei Decreti Gullo su richiamati.

E’ la storia dell’illusoria “riforma agraria”, avviata, dopo la caduta del fascismo, dall’allora Ministro dell’Agricoltura nel secondo gabinetto Badoglio, il cosentino Fausto Gullo, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945: il sogno delle concessioni ai contadini delle terre incolte, pietra miliare di un percorso di riscatto dalla povertà e di partecipazione effettiva alla rinata democrazia, prima tappa verso la costruzione di quella Repubblica, che l’art. 1 della Costituzione vorrà fondata sul “lavoro”. Cosa importa se di lavoro in fabbrica o lavoro nei propri campi si tratta? E’ il lavoro l’unico denominatore che rende tutti i cittadini titolari di “pari dignità”.

Un sogno che svanisce proprio nei giorni in cui la neonata Repubblica Italiana emette i suoi primi vagiti, in cui Gullo viene sostituito all’Agricoltura dal democristiano Antonio Segni e in cui i latifondisti rivendicano i propri diritti su quelle terre, che i “cafoni” già sentivano proprie e a cui “mai” i signori le avrebbero cedute. Sono i giorni del barbaro assassinio di Giuditta Levato, la trentunenne contadina che, insorta a Calabricata contro quell’usurpazione della terra, muore, incinta di sette mesi, raggiunta da un colpo di fucile al ventre. E’ il 28 novembre 1946.

Muore innocente, come qualche mese dopo a Portella della Ginestra morirà innocente la ventritreenne Vita Dorangricchia, il cui nome ho sentito pronunciare per la prima volta da un’alunna della Scuola Primaria, ad una manifestazione in ricordo delle vittime di mafia.

Ricorrere unicamente e univocamente a questa etichetta, vittime di mafia, equivale a commettere un adulterio storico! Come osserva Romano Pitaro ne “L’Ape Furibonda”, “quel decennio di lotte contadine sfociato a Calabricata con un assassinio cui ne seguirono altri  ancora più tragici (l’Autore ricorda Portella della Ginestra e Melissa, n.d.s.) ebbe un infausto epilogo, come scrisse il dirigente comunista Paolo Cinanni: «il fallimento della riforma agraria e l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei ghetti dell’immigrazione»”.

Da lì iniziò quel tragico capitolo della storia dei giovani del Sud, imboniti dall’inno degasperiano “Imparate una lingua e andate all’estero”, che avrebbe avuto un decorso e un’evoluzione certamente diversi se a quel bivio, settantacinque anni fa, fosse stata fatta la scelta di realizzare la dignità dell’Uomo, attraverso la dignità di tutti i lavoratori.

Se si condivide oggi l’idea che la memoria non è “un deposito dove sono ammassati inerti i fatti del passato, ma è una miccia che accende il presente”, che ci consente di vivere “il futuro come promessa”, come disse Raniero La Valle in un suo discorso ora pubblicato sulle colonne di Questione Giustizia, commemorare il primo maggio significa riscoprire il significato e il valore che noi, uomini e donne del Sud, nell’anno 2021, diamo alla parola “lavoro”.

E’ la storia dei nostri contadini, è la nostra storia: dobbiamo ricordarla e onorarla, per, se ancora possibile, scrivere con parole nuove il nostro futuro.


Calabria e calabresi nel mondo: un approccio sistemico con una visione 4.0

Maria Loscrì

È una terra inquieta, quella di Calabria, in cui da secoli, ormai, si compie una rivoluzione lenta ma inesorabile, silenziosa, messa in atto, spesso in modo del tutto inconsapevole, da chi è costretto ad emigrare. Dall’Unità di Italia ad oggi, l’Italia è stato un paese profondamente segnato dall’emigrazione e la Calabria è stata ancor più intensamente incisa dalla partenza di giovani e meno giovani che hanno lasciato la terra natia per non farvi più ritorno, se non in veste di vacanzieri, più o meno occasionali. Ad una prima e intensa ondata migratoria post unitaria, caratterizzata, prevalentemente, da spostamenti oltreoceano, è succeduta una seconda fase, a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso, con prevalenza dei flussi in direzione dell’Europa. L’emigrato dei nostri giorni, invece, ha caratteristiche totalmente diverse rispetto al passato: il livello di istruzione è sempre più elevato, emergono nuove figure quali quelle dei nonni-genitori che trascorrono periodi sempre più lunghi all’estero, con figli e nipoti ed anche quelle dei migranti previdenziali, ovvero pensionati che si spostano a vivere in paesi in cui è in corso una politica di defiscalizzazione.

Per contro, vengono sempre più alla ribalta movimenti di idee e di pensiero che, appellandosi alle moderne proposte di turismo delle radici e turismo della memoria, trovano sempre più compiuta organizzazione in proposte formative accademiche, in modelli socio-culturali ed economici sostenuti a livello istituzionale e, più raramente, in slogan di appassionati cultori degli esigui fondi regionali che potrebbero essere destinati alla promozione dei viaggi della ri-scoperta delle identità perdute.

Sia i luoghi dell’esodo che quelli della partenza sono da sempre profondamente ridisegnati dal fenomeno migratorio: da una parte vi sono storie di dolore, di dispersione, di abbandono, di erosione di un sistema antico che viene lasciato alle spalle, dall’altro vi è un mondo nuovo che ha attirato a sé l’alterità, che ha ingenerato speranze e aspettative, che ha spinto al mutamento e alla ricerca del nuovo.

È un intero tessuto culturale, sociale, economico e anche politico che viene in considerazione quando si parla dei fenomeni migratori, vecchi e nuovi, e per la Calabria il peso è ancora più gravoso rispetto che altrove. Una terra di grandi contraddizioni, di contrasti geografici, climatici, storici, antropologici, quale è la nostra, esprime anche in ordine all’emigrazione e alle dinamiche che caratterizzano il fenomeno, zone chiaroscurali, pressappochismo e vecchie logiche di sistemi che stentano a tramontare, pur inneggiando all’esigenza del nuovo.

È fuor di dubbio che i figli di Calabria abbiano espresso talenti e virtù nei luoghi che li hanno accolti, così come è fuor di dubbio che la nostra regione possa vantare bellezze paesaggistiche, ricchezze enogastronomiche, peculiarità del Patrimonio Culturale la cui narrazione molto spesso, troppo spesso, è stata affidata a voci esterne. Altrettanto certo è che non sfugga ricorrenza per tanto commossa decantazione, anche in consessi che, sia pure in funzione consultiva, potrebbero esprimere capacità programmatica incisiva e sistemica, qualora fossero composti da membri dalle comprovate e certificate professionalità. Eppure tutto ciò non avviene e, nei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, si assiste alla puntuale ripresa del ciclo di vita di matusalemmi affezionati alla Calabria che inseguono il loro sogno di continuare a musealizzare quella che fu la loro amata terra, senza mai riuscire a realizzarlo e nell’ostentare il vecchio ed esausto bisogno di continuare, in modo insistente ed ostinato, nel loro fallimento generazionale, invocano la presenza dei giovani, non per senso di amorevole e compassionevole dignità verso ciò che non è mai stato e mai sarà, ma solo nel subdolo tentativo di risucchiare energie giovani e vitali nel vortice dei loro documentati insuccessi.

Come si può pensare, in un ventunesimo secolo che ha conosciuto la più triste e grave forma di globalizzazione nella tragedia della pandemia che ha colpito il mondo intero, di accomunare i Calabresi sparsi nel mondo con idee progettuali miseramente fallite da più generazioni? Si può veramente essere ingenui al punto tale da ritenere che la forza coesiva di almeno tre generazioni che vivono sparse sull’intero globo possa essere rinvenuta nella nostalgica idea di rivedere la casa diroccata e abbandonata in borghi altrettanto solitari e sperduti che furono dei propri avi? Magari al costo di una vacanza ai Caraibi piuttosto che alle Seychelles?

Sfugge, o forse non è facilmente comprensibile a chi ha più o meno volutamente calcificato una forma mentis, che le protagoniste vere e indiscusse, nei processi di valorizzazione identitaria, soprattutto se intergenerazionale, sono le comunità, le sole titolari del diritto-dovere di partecipare attivamente alla perpetuazione del proprio Patrimonio Culturale. La rappresentanza delle comunità stesse richiede un’imprescindibile senso di responsabilità verso tale considerazione così come richiede un’imprescindibile livello di consapevolezza del valore che assumono le infrastrutture sociali. Ragionare in termini di capitale sociale, quando le comunità sono ampie e disperse quali quelle dei Calabresi nel mondo, è compito arduo che richiederebbe, anche da parte di organismi consultivi appositamente predisposti, un grado di sensibilità e preparazione che non appartiene, certamente, ai più affezionati sognatori dei finanziamenti a pioggia. Cui prodest, dunque, che tali nostalgici continuino ad occupare lo stesso posto ormai da decenni?

Il punto di partenza, assiomatico, nel creare valore attorno ad una calabresità pensata e vissuta in una dimensione 4.0 non può che essere rinvenuto nelle riflessioni di tre autori, Andorlini, Basile e Marmo i quali, in merito al valore catturato specificano che esso si produce nell’incontro tra le persone, è caratterizzato da un alto tasso di casualità e un basso livello di intenzionalità e pertanto si concretizza esclusivamente laddove luoghi ed esperienze sono in grado di accoglierlo, valorizzarlo e dargli spazio. Il valore catturato, nella nostra visione, è quello che produce la differenza tra i territori e, se da un lato si crea proprio grazie alla densità relazionale, dall’altro è una delle dimensioni che alimenta e rafforza quest’ultima. Valore catturato e densità relazionale producono un loop positivo che rende i territori più generativi in termini di prospettive e di possibilità future.

Lavoreremo senza sosta, anche negli organismi consultivi dei Calabresi nel mondo, affinché questa rivoluzione culturale possa compiersi!


IL CAPITALE SOCIALE DELLA CALABRIA: UN PATRIMONIO DA SCOPRIRE E VALORIZZARE

Maria Loscrì

Esiste una Calabria raccontata con il linguaggio del sublime sin dai tempi in cui i viaggiatori del Grand Tour vedevano in essa l’oggetto del proprio desiderio, variamente attratti ora dall’incantevole bellezza degli scenari, ora dagli spasmi di un territorio in continuo mutamento, ora dalle romantiche mulattiere, ora dalla presunta perfidia degli abitanti, ora dall’essere epicentro di una memoria cui attingere e ispirarsi.

Una terra disseminata qua e là di paesaggi scabri, quasi lunari, ricca di pascoli, rivi gorgoglianti e impetuosi, foreste secolari e frondose, sentieri serpeggianti per passare attraverso luoghi solitari e terre spopolate e incolte.

Vi è nei resoconti del Grand Tour quel tanto di creatività che appartiene a storici irregolari come Erodoto e Svetonio, che i viaggiatori finiscono inavvertitamente per imitare. Ma c’è anche qualcosa che affiora da un livello più profondo: un intenso amore per la grecità che trae linfa ora da un rudere, ora da un ritmo musicale, ora da una lingua perduta: paesaggi dell’anima dominati da un’unità intatta dove si annidano i fantasmi della memoria. E ciò ammaliava, seduceva, incoraggiando viaggi in una terra molto spesso ardua, aspra, con un quadro orografico estremamente composito che il dissesto geologico, il disordine idrico e una serie interminabile di movimenti tellurici avevano reso ancora più sublime.

Nell’immaginario del tempo la Calabria era una sorta di locus amoenus che risuonava ancora delle lingue perdute, abitato da popolazioni arcaiche, ricco di castelli e abbazie caratterizzati da un’architettura imponente ma impenetrabile allo stesso tempo. Un’alchimia straordinaria di una terra capace di conciliare nelle affinità gli opposti, nelle metamorfosi il principio.

 

Capocolonna (Crotone)

Ancora oggi la Calabria, per il viaggiatore che voglia conoscerla, scoprirla, apprezzarla, è la terra in cui il paesaggista troverà luoghi di bellezza sorprendente, l’antiquario le rovine che non sono ancora state studiate, il botanico scoprirà le piante e i fiori più rari d’Europa mentre il filosofo sarà colpito dalla grandezza dell’antica Grecia che ancora vive in pietre e memorie. Ma in questa linea serpentina del sublime in cui la dimensione del viaggio e della scoperta si ancorano in maniera indissolubile con quella della vita e della natura di questi posti, vi è un elemento rimasto sullo sfondo, quasi inesplorato, che racchiude in sé, con molta probabilità, le ragioni per cui il viaggiatore di oggi, così come quello di ieri, sfiora questa terra per andare via subito, la accarezza senza assaporarla pienamente, la vive di passaggio o, qualche volta, la evita: rimane sullo sfondo la gente di Calabria, i vicoli che risuonano di voci gioiose, le rughe che hanno visto generazioni incontrarsi nei mestieri della tradizione, i campi che conservano il sudore della fronte di chi, dall’alba al tramonto, scandiva i ritmi del faticoso calendario rurale, intonando canti e melodie, il dolore di chi ha dovuto abbandonare la casa natia per cercare il pane altrove, il coraggio delle donne, mogli, madri, figlie che hanno retto sulle proprie spalle il peso delle mille attese e delle altrettante illusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti.

Come ha ben riflettuto Augusto Placanica, “Un popolo non soggetto, ma oggetto di storia”, caratterizzato da identità mobili presenti in una terra complessa e ricca di contraddizioni in cui il problema certamente politico delle tante e varie identità presenti nella regione, reclama una risposta e una soluzione politica, in senso lato, come politica delle immagini, delle rappresentazioni, delle narrazioni.

L’acuta penna di Berto ha additato con stupefacente precisione i responsabili di tale situazione: “Sulla Calabria s’è abbattuta una distruzione più maligna di quella dei terremoti, e i principali responsabili sono le amministrazioni locali – quasi tutte avide e ottuse – e i vari governi e governanti, che hanno sempre affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con stupefacente rozzezza”.

 

Parco della lavanda (Morano Calabro, Cosenza)

Aggiungeremmo, con visioni miope ed eterodirette, nella maggior parte dei casi avulse dal flusso di relazioni che accompagnano e caratterizzano, per la loro stessa natura, le comunità in quanto tali le quali, nella Calabria degli ossimori, racchiudono e comprendono, con tutta probabilità, il senso e la direzione di un intervento di programmazione e progettazione territoriale che non può più prescindere dal capitale sociale che ne è parte integrante. La vera scommessa di riscatto di questa ricca ma sfortunata terra non può che venire dalla (ri)scoperta di una voce del suo Patrimonio finora rimasta fuori scena, e forse non a caso. Non è più pensabile che si continui nella decantazione delle meraviglie contraddittorie della Calabria, così come avvenuto ad opera dei viaggiatori del passato così come non è più pensabile che chi occupa le poltrone di comando pensi di poter risolvere le tante problematiche incombenti a suon di slogan e formule già ampiamente proposte e sperimentate. Il sublime della Calabria risiede, e va ricercato, proposto e valorizzato nella complessità e nella densità delle relazioni che caratterizzano le sue comunità che, a ragion veduta, devono diventare protagoniste di una programmazione partecipata nella costruzione dei processi di cambiamento in cui si sviluppano consapevolezza e strategie di azione partendo dalla interazione di diverse capacità, sensibilità, competenze.

 

Cattolica bizantina di Stilo (Reggio Calabria)

I diversi volti della Calabria devono potersi comporre in un quadro unitario in cui il denominatore comune sia rappresentato da “comunità competenti”, ovvero da persone via via comprese in gruppi sempre più organizzati che abbiano un repertorio di possibilità e di alternative, dunque abbiano un “potere” di pensare e di agire, sappiano dove e come ottenere risorse, chiedano di essere autonome in quanto caratterizzate da capacità di autodeterminazione e autostima. Il cambiamento può e deve originare dal gruppo sociale poiché le persone hanno in sé e nelle comunità cui appartengono le risorse per produrre cambiamento e, d’altro canto, perché i processi di cambiamento siano realmente democratici, necessitano, obbligatoriamente, di una concreta partecipazione dei cittadini nella definizione, nella produzione, nella comunicazione e nella valutazione dei cambiamenti che riguardano la comunità. Maggiore è il problema da affrontare, maggiore sarà la necessità di interazione tra i soggetti, così come maggiore sarà l’esigenza di intensificare la densità delle relazioni fra gli stessi. Ciò significa, in altri termini, lavorare sull’elemento più inesplorato del Patrimonio, calabrese in particolare, ovvero sul capitale sociale. In questa nuova dimensione esplorativa, il calabrese che vive in Calabria, ma anche chi ha lasciato la propria terra natia e volge lo sguardo nostalgico alla casa paterna, comprenderà che ragionare in termini di cambiamento reale, praticato e non solo ben predicato, significa puntare sull’intensità del grado di coesione sociale esistente nelle comunità di volta in volta considerate per riferirsi ai rapporti che si instaurano tra le persone stesse e che stabiliscono reti, norme e fiducia sociale, facilitando il coordinamento e la cooperazione nell’ottica di un vantaggio reciproco. La questione è particolarmente delicata allorquando si tratta di processi di partecipazione su iniziativa di un soggetto pubblico che chiama in causa anche i processi della rappresentanza nell’ambito delle politiche sociali. Ed il tema è particolarmente spinoso in regioni come la nostra in cui la progettazione calata dall’alto ha determinato non pochi squilibri, e a più livelli, soprattutto con l’incalzare di tempi che impongono di coniugare l’universalizzazione dei principi con la localizzazione delle prassi. Come può, una regione come la Calabria, governata a suon di slogan e formule dal comprovato insuccesso, comprendere che la vera e unica svolta è rappresentata da processi di progettazione partecipata? A fronte dell’interrogativo, potremmo prospettare un’auspicabile inversione metodologica nella programmazione delle politiche per le nostre comunità, ovvero:

  • Incoraggiare interpretazioni pluralistiche dei problemi sociali, facendo interagire e, possibilmente, integrando diversi tipi di conoscenza
  • Dando voce alle narrative minoritarie
  • Creando legami tra i gruppi, le persone, le organizzazioni che condividono uno stesso problema, di una determinata comunità
  • Identificando i punti di forza già esistenti in una data comunità

L’inversione di approccio metodologico e fattuale potrebbe certamente consentire, non solo al novello viaggiatore, ma al calabrese stesso, di cogliere un che di sublime in una terra che aspetta ancora oggi di narrarsi dopo essere stata a lungo narrata.


Il museo di Reggio racconta una Calabria antica e nuova

Fonte: L’Eurispes.it

Maurizio Lovecchio

Turismo e cultura sono un binomio fondamentale: ne è convinto Carmelo Malacrino, Direttore del Museo Nazionale di Archeologia di Reggio Calabria. Nell’intervista rilasciata al nostro magazine, racconta quanto il polo museale che accoglie i Bronzi di Riace, uno dei simboli per eccellenza dell’arte antica, sia diventata una occasione di rilancio e vetrina ideale per mostrare a visitatori da tutto il mondo la ricchezza storica e territoriale dell’intera Calabria.

Direttore, nel 2019, l’anno precedente al blocco imposto dalla pandemia da Covid-19, il Museo Nazionale di Reggio Calabria ha registrato 227mila visitatori, ponendosi con un risultato straordinario anche in controtendenza rispetto al calo che hanno invece registrato altri musei anche più importanti. Oltre alla capacità attrattiva che presentano i Bronzi di Riace, che cos’altro ha funzionato ed è alla base di questo successo?

Diciamo che è stato il raggiungimento di un obiettivo che abbiamo costruito negli anni precedenti. Il museo ha riaperto al pubblico il 30 aprile del 2016 e da allora abbiamo lavorato in efficienza, accoglienza e puntando sulla sicurezza e sulla comunicazione, cercando di far capire al pubblico che il museo è Bronzi di Riace, ma anche tanto altro come le grandi collezioni straordinarie della Calabria antica. Poi è stata un’altra tappa del percorso di profondo legame con la comunità del territorio che trovava proprio nel museo il luogo della cultura della città. Quindi anche grazie alla programmazione estiva, penso ai tanti eventi organizzati con i partners istituzionali – il Parco Nazionale dell’Aspromonte, il Conservatorio Cilea, il Planetario Pitagora – e ai tanti amici che hanno voluto collaborare per fare del museo un luogo inclusivo, dinamico, aperto a tutti. Questo lo abbiamo fatto, come dicevo, anche sulla terrazza, in un luogo fortemente suggestivo affacciato sullo Stretto, e di sera un posto veramente splendido.

Abbiamo già citato i Bronzi di Riace come fenomeno di attrazione principale del Museo Nazionale di Reggio Calabria. Spesso le due statue sono state al centro di polemiche, dibattiti, soluzioni fantasiose, proposte discutibili. Qual è il suo rapporto personale con queste due “ingombranti” presenze e quali altre collezioni ci sono e sono degne di altrettanta attenzione?

Non le definirei “ingombranti” ma magnifiche, straordinarie, fanno del museo di Reggio un grande attrattore non soltanto della Calabria ma di tutta l’Italia. Registriamo turisti che raggiungono appositamente questa città da qualsiasi parte del mondo (Australia, America Latina, Stati Uniti, Estremo Oriente), quindi i Bronzi sono capaci di attrarre amanti dell’arte greca da ogni luogo. In realtà non mettono in ombra il resto delle collezioni ma le valorizzano, nel senso che moltissimi turisti arrivano al museo di Reggio immaginandolo come casa dei Bronzi e in realtà trovano il grande museo della Calabria antica. Un museo allestito per raccontare la straordinaria storia della Calabria antica – dalla Preistoria fino alla tarda età Romana – su quattro livelli con una selezione di reperti fra i più importanti tesori dell’archeologia calabrese. È difficile dire quale pezzo sia più importante di un altro, perché poi ciascun reperto esposto è il protagonista di una storia diversa, di un piccolo capitolo di questo libro che è la storia della Calabria antica (penso alla testa dell’acrolito di Apollo proveniente da Cirò, ma anche la testa di Porticello, la testa del Filosofo, opere note in tutto il mondo e presenti nei principali volumi di storia dell’arte greca).

Alcuni suoi colleghi, direttori di importanti musei italiani, hanno pubblicato una lettera su Artribune rendendo nota un’idea, un’ipotesi di rilancio dei musei nel periodo post-Covid, suggerendo, di fatto, la trasformazione, o l’esigenza di trasformare i musei in luoghi prettamente di memoria e di conservazione della cultura in luoghi di ricerca, e quindi aperti anche a percorsi formativi che guardano al futuro. Lei è d’accordo con questa idea?

Non solo sono d’accordo, ma è quanto noi stiamo facendo da qualche anno qui al Museo. Questo non è soltanto un contenitore di oggetti, ma è un luogo nel quale raccontare le storie che vengono testimoniate da questi oggetti. È un luogo nel quale assicurare la conservazione delle collezioni per poterle poi consegnare alle future generazioni, quindi un posto nel quale si fa restauro, si fa ricerca sulla conservazione e sui reperti, sia su quelli esposti, sia sulle tante collezioni che sono conservate nei depositi e che rappresentano il grande potenziale di ciascun museo. Queste storie le raccontiamo all’interno di tante esposizioni, penso alle numerose mostre che abbiamo allestito proprio per arricchire l’offerta espositiva del museo. Qui, per esempio, ho uno degli ultimi cataloghi realizzato, dedicato alla mostra su Paolo Orsi,, all’origine dell’archeologia fra Calabria e Sicilia che segna anche una straordinaria sinergia con la Sicilia e con il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa nell’intenzione di voler mettere insieme le collezioni calabresi e siciliane per raccontare la storia di questo eccezionale archeologo della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Un’attenzione alla narrazione delle collezioni che riguarda tutti, a partire dai bambini, soggetti ai quali affidiamo grande attenzione. Qui ho, ad esempio, l’offerta formativa didattica che abbiamo proposto per i laboratori dedicati ai più piccoli. Una serie di laboratori differenziati per età e dal punto di vista tematico. Poi, ovviamente, i rapporti con le Università, i luoghi preposti alla ricerca e tante sono le collaborazioni che stiamo portando avanti per poter permettere alle Università di studiare le nostre collezioni, farcele conoscere meglio in modo tale che noi stessi possiamo valorizzarle nella maniera più efficace.

Questa estate, analizzando i flussi turistici in Calabria, la nostra sede regionale dell’Istituto Eurispes ha raccolto dati positivi, che hanno premiato la Calabria quale meta preferita da molti vacanzieri. Tra gli attrattori turistici che abbiamo analizzato e registrato in questa nostra ricerca c’è il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Secondo Lei, la presenza sul territorio di un museo importante, quanto influisce sulle scelte e quindi sulle preferenze turistiche e quale connessione vede proprio tra turismo e cultura in particolare per lo sviluppo della Calabria?

La presenza di un luogo della cultura così importante come il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria è fondamentale per il turismo di questo territorio. Dobbiamo sempre ricordare che questo museo non è il museo di Reggio Calabria, ma è il museo dell’intera Regione, quindi raccoglie e mette insieme reperti provenienti da ogni parte della Regione proprio per raccontare in una narrazione continua quella che è stata la storia della Calabria nell’antichità. Quindi è un polo di attrazione culturale non soltanto per Reggio ma per tutta la Regione. Al tempo stesso diventa l’inizio di un percorso di scoperta per gli altri luoghi della Regione, perché i tanti turisti che raggiungono Reggio Calabria e che raggiungono il nostro museo attratti dai Bronzi di Riace scoprono le vetrine dedicate a Locri, le vetrine dedicate a Vibo, a Rosarno, a Sibari, e quindi nasce dentro di loro anche la curiosità di intraprendere un percorso alla scoperta di questi luoghi straordinari. Turismo e cultura sono un binomio fondamentale. Quanto abbiamo registrato circa l’impatto della riapertura del museo il 30 aprile del 2016 sul tessuto economico della città ci fa capire che il museo è un forte attrattore, ha un impatto sui ristoranti, sui bar, sugli alberghi, che è stato notevole e questo ci è stato comunicato sia da Federalberghi che dalla Camera di Commercio con cui collaboriamo attivamente proprio per creare un’offerta turistica a 360 gradi e partecipare e anche supportare il tessuto economico e culturale del territorio. All’interno di un progetto di collaborazione che coinvolge non soltanto l’aspetto strettamente culturale, quindi i rapporti con gli altri musei, penso alla Pinacoteca Civica, al Piccolo Museo San Paolo, al Castello Aragonese, ma abbiamo lavorato molto anche sul connubio cultura-natura, quindi stringendo un profondo legame con il Parco Nazionale dell’Aspromonte, proprio per far sì che anche i visitatori del museo potessero proseguire o iniziare un viaggio alla scoperta dello straordinario paesaggio dell’Aspromonte. Tirando le somme dei percorsi di questi anni direi che l’impatto del museo sul turismo del territorio è stato notevole ma non può essere che un invito a lavorare ancora di più, sempre meglio e tutti insieme, per far sì che l’immagine che a volte caratterizza la Calabria possa essere rinnovata, possa essere affiancata da un’immagine positiva, basata su patrimonio culturale ricchissimo, l’immagine di un territorio che ha accolto e continua ad accogliere culture da ogni parte del Mediterraneo e possa essere anche l’immagine di un territorio proiettato verso il futuro.

 


Una passeggiata tra le rovine di Scolacium in un verde lussureggiante

Bakhita Ranieri

Sembra un sogno ma a pochi km da noi si trova un parco archeologico in località Roccelletta di Borgia, vicino la S.S. 106 che collega Crotone a Reggio Calabria. Circondato da un folto uliveto si estende per 35 ettari di terreno. Al suo interno si trovano la Basilica di Santa Maria della Roccella, il Foro romano che abbraccia molti secoli dal III a.C. al VI d.C. in cui sono collocati gli edifici principali della colonia romana, il teatro, datato al I sec. d.C. in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali, rimasto incompleto, l’anfiteatro romano datato al II sec. d.C., messo in luce durante uno scavo di pochi anni fa e la necropoli bizantina.

Da lì sarà piacevole, tempo permettendo, osservare l’intera costa che abbraccia Catanzaro Lido fino a Soverato. Il parco ospita anche due musei, quello del frantoio, in cui sono istallate le macchine che servivano per produrre l’olio, in uso fino agli anni cinquanta e quello archeologico che si sviluppa su due piani composto da 11 sale con i reperti rinvenuti durante le campagne di scavo dal 1975 fino a qualche anno fa.

Immergiamoci quindi in questa passeggiata virtuale con il tepore che ci regala la primavera.

Roccelletta di Borgia prende il nome dalla Chiesa di Santa Maria della Roccella, che domina il territorio con la sua mole di mattoni rossi in prossimità del mare, non lontano dal fiume Corace. Di epoca bizantino-normanna è costituita da un’ampia navata con un tetto a cassettoni in legno collegato da alcuni gradini al braccio sopraelevato coperto con volte in muratura.

Il vasto presbiterio termina con una profonda abside affiancata da due absidiole più piccole che concludono ambienti a pianta quadrata. Nell’abside centrale si aprono tre nicchie, sormontate da un’ampia finestra, finestre si aprono anche nelle due absidi laterali. Anche la navata è illuminata da una serie di finestre intervallate da archi ciechi con un motivo decorativo a doppia fascia di laterizi.  L’edificio venne in seguito trasformato in fortezza, sono stati rinvenuti infatti proiettili di pietra per catapulta. Nella seconda metà dell’800 fu impiegata come ricovero di animali e come cava di materiali da costruzione.

Continuiamo la nostra piacevole passeggiata e arriviamo al Foro, che costituisce la principale piazza di ogni città romana. È collocata all’incrocio tra due assi viari principali, il cardo maximus e il decumanus maximus formando uno spazio pubblico di forma rettangolare. Qui si affacciano i più importanti edifici a carattere religioso (il Capitolium) e amministrativo (Curia, Tabularium, Tribunal). Altri edifici pubblici sono il Macellum per attività commerciali e il Comitium di riunione per i cittadini. La piazza nel corso dei secoli, dopo il terremoto del IV sec. d.C. perse la funzione di centro della città e divenne un’area per insediamenti artigianali com’è dimostrato dal ritrovamento di una grande fornace per materiali ceramici e cava di materiali edilizi.

E adesso tutti in fila per il teatro. Le ricerche che misero in luce l’edificio furono svolte tra il 1965 e il 1975. Si data al I d.C. È realizzato imbrigliando la collina con muri concentrici in opus reticulatum. Costituito da un’orchestra semicircolare e da una cavea divisa in tre settori (maeniana): quello inferiore (imma cavea) diviso in 5 cunei da sei scalette accessibili attraverso un corridoio (praecinctio) che facilitava il passaggio degli spettatori; media cavea e quello superiore (summa cavea) diviso in 4 cunei da 5 scalaria. Ai lati estremi dell’imma cavea erano due accessi (aditi maximi) che consentivano l’ingresso alla cavea e all’orchestra. La scena veniva organizzata con la costruzione del muro del palco (pulpitum), del sipario (auleum) e dello sfondo fisso (scaena frons). Poiché gli spettacoli si svolgevano di giorno, era necessario per i romani proteggere gli spettatori dalla luce attraverso il velarium, una copertura mobile in tessuto fissata con travi e ancorata ai muri per mezzo di anelli.

Ed ora su per la collina, andiamo all’anfiteatro ad assistere a qualche combattimento sanguinoso. Qui si svolgevano anche le venationes e le naumachie. Era compito dei magistrati appena eletti, per fare carriera, offrire i ludi gladiatori alla città. Destinare i condannati, per reati comuni o politici ad bestias, era un modo per spettacolizzarne l’esecuzione ed imprimerla nella memoria degli spettatori. I gladiatori che combattevano erano prigionieri di guerra o schiavi addestrati in scuole apposite gestite dai lanistae che li preparavano ai diversi tipi di combattimento. Erano praticati combattimenti crudeli in cui uno dei due duellanti era disarmato. L’imperatore, interpretando l’umore del pubblico, poteva graziare lo sconfitto levando il pollice verso l’alto, non è un caso che nel nostro linguaggio comune il nostro l’ok corrisponda allo stesso simbolo, il gesto contrario significava la morte. La sera prima dello spettacolo, i gladiatori partecipavano ad un banchetto a cui assisteva un pubblico di affezionati. Una forma particolarmente crudele di spettacolo era quella in cui i condannati a morte erano impiegati per rappresentare episodi cruenti dei miti. Il nostro anfiteatro, si data al II sec. d.C. di dimensioni considerevoli, è l’unico finora attestato in Calabria ed uno dei pochi dell’Italia meridionale situato in una piccola valle. La parte occidentale dell’edificio sfrutta il pendio della collina, la parte orientale fu costruita in elevato con laterizi e più ordini di arcate sovrapposte inquadrate da lesene.

Le campagne di scavo sono state effettuate nel 2010-2011 l’impianto presenta muraglioni radiali in opus incertum cinte di mattoni basate su uno schema ellittico. Fu realizzato con strutture che creano vani trapezoidali privi di finestre ed in parte costruendo cassoni sotterranei su cui si impiantavano le gradinate della cavea. Sul settore orientale si trova una struttura cava, la parte più bassa fungeva da entrata (vomitorio). Ai lati erano posti due vomitori minori che permettevano agli spettatori di raggiungere i settori superiori della cavea. Della facciata esterna si conservano parti in opus incertum e opus testaceum. Tra fine III e IV secolo un settore abbandonato dell’edificio fu occupato da una sontuosa dimora posta su varie terrazze su cui si sovrappose tra V e VI secolo un’altra costruzione con poderose fondazioni che sfruttano in parte i resti dell’anfiteatro.

E la nostra ultima tappa esterna ci porta alla necropoli, la città dei morti. Per non invadere lo spazio sacro della città (pomerium), era collocato all’esterno. Si data tra il VI- VII sec. d.C. Presenta due fasi principali di utilizzo: la prima è caratterizzata da tombe a cassa rettangolare, orientate in direzione del mare, con sepolture dotate di corredo. Il defunto era appoggiato con il capo su una tegola rovesciata, le coperture erano in tegole o in grandi laterizi. La seconda fase è caratterizzata da tombe in nuda terra molto semplici prive di corredo. Le deposizioni potevano essere plurime ed i corredi costituiti da manufatti in metallo, vetro e ceramica. Tra le brocchette, che costituiscono il corredo più diffuso in questo periodo, è stato rinvenuto un prodotto tipicamente scolacense. Si tratta di una specie di bottiglia a due anse sia acroma che sovra dipinta in argilla rossa.

Siamo pronti per entrare nel Museo del Frantoio. La famiglia Mazza era proprietaria di numerosi latifondi sparsi nel comprensorio borgese in cui predominavano le colture del grano e dell’olivo.

La costruzione del trappito avvenne intorno al 1934, aveva un pavimento in materiale impermeabile e facilmente lavabile ottenuto con una gettata di cemento povero. Per la macinazione delle olive furono utilizzati i locali del pian terreno della casa padronale. Qui furono installate tre macine con ruote di granito per triturare le olive senza innalzare la temperatura della pasta e otto pressette a tre colonne. Sul lato lungo troviamo invece le pressette da 8 e l’impianto della pompa idraulica ubicata vicino l’ingresso. La conservazione dell’olio avviene nelle classiche giare di terracotta. La mole e le pressette venivano azionate dal motore detto “a testa calda” per il suo particolare sistema di accensione nel motore.

La nostra ultima tappa ci porta a visitare il Museo Archeologico inaugurato nel 2005. La storia di questo parco è scritta su due targhe poste sui cancelli di ingresso lungo la superstrada 106 Jonica. Le sale, disposte su due piani, si susseguono dalla prima, l’età preistorica e protostorica, includono l’età greca dell’antica colonia di Skylletion per passare all’età romana con testimonianze numismatiche, manufatti, marmi raffinati e togati che catturano i visitatori di tutto il mondo, per finire all’undicesima sala che racchiude la testimonianza del passaggio dell’età bizantina.

Ma non è finita qui. Mentre si passeggia alla scoperta di questi ruderi immersi in un’atmosfera che ci riporta indietro di molti secoli, abbiamo la possibilità di immergerci anche nella natura. Infatti possiamo trovare piante di quercia tipica della macchia mediterranea, utilizzata come legna da ardere; il pioppo usato nell’industria cartiera; il biancospino usato nell’industria farmaceutica grazie alle sue proprietà sedative e rilassanti; il leccio, uno dei migliori legni da ardere poiché produce molto calore e si consuma lentamente e tantissimi ulivi secolari della varietà Carolea, olivo sia da mensa che da olio. Poi ancora mandorli, peri selvatici.

E parliamo un po’ anche di leggenda per attrarre i più piccini partendo dalla storia di Atena e la Cornacchia. Tante cornacchie continuano a vivere qui.

Athena Skylletria è il nome di questa colonia greca fondata nel Golfo di Squillace e dedicata alla potente dea protettrice della città di Atene. Divenuta una colonia romana la città non smise di essere consacrata alla dea assumendo la denominazione di Minerva Scolacium.
Zeus divise le competenze fra gli dei al fine di definire un ordine e per farlo doveva necessariamente fare una serie di “matrimoni”, unendosi ad entità divine che gli conferissero dei valori e dei poteri di cui aveva bisogno. Si unì infatti con Metis, la Saggezza. Da questa unione stava per sarebbe nata Atena, la dea della Saggezza per eccellenza. Il Signore degli dei però pensò che la figlia avrebbe potuto essere più forte del padre e quindi il suo trono avrebbe potuto essere in pericolo. Chiese consiglio al Cielo Stellato e alla Terra che gli suggerirono di inghiottire Metis la sua sposa, in modo che Atena potesse nascere direttamente da lui. Finalmente nacque con le sembianze di una fanciulla, vestita con il peplo, dai lunghi capelli raccolti e con un elmo, uno scudo e una lancia è armata perché deve difendersi. Le è sacro l’albero d’ulivo perché è una pianta preziosa, nelle antiche monete ateniesi, è raffigurata insieme a una civetta, l’animale sacro.

Ci fu un tempo in cui la dea però aveva come suo animale sacro proprio la nera cornacchia. Cheronea era una principessa della Focide, figlia di un re, era una ragazza era molto bella, desiderata e seducente. Mentre passeggiava lungo la riva del mare, il dio degli oceani, Poseidone, potente fratello di Zeus, la vide e si innamorò. Prima cercò di sedurla con parole dolci, poi l’avvinghiò fra i suoi flutti cercando di possederla e farla sua con la violenza. La giovane stava per soccombere sotto la forza brutale di quel dio violento e impulsivo, quando le venne in aiuto la vergine Atena che per liberarla dalla morsa di Poseidone le donò le sembianze di un uccello nero. La fanciulla vide il suo peplo mutarsi in piume e le sue braccia in ali. La dea dunque la consolò e le concesse di divenire il suo animale sacro.

Atena aveva però un grande segreto. Era stato riferito ad Efesto, il dio del fuoco, che la vergine dea smaniasse d’amore per lui che era vecchio e zoppo. Appena saputo, l’assalì e tentò di farla sua. Per la guerriera non fu difficile respingere la forza brutale del dio, ma l’eccitazione del dio era tale il seme non cercato del dio del fuoco le cadde addosso e lei con sdegno si pulì con un panno di lana che gettò schifata a terra.

La Terra fecondò quel seme nacque così un essere mostruoso: Erittonio ad Atena non rimase altro che rinchiuderlo in una cesta e lo consegnò a tre fanciulle chiedendo di fare la guardia, ma vietando assolutamente di aprire quel paniere magico. Come supervisore mise la sua fidata cornacchia.

Le fanciulle obbedirono al volere della dea, ma quel paniere le incuriosiva molto perché dal suo interno si sentivano provenire gemiti e vagiti. Fu una delle tre a decidere di aprire la cesta, le altre non erano molto d’accordo ma la stranezza di quell’involucro misterioso le affascinava e le atterriva allo stesso tempo. La povera cornacchia si accorse di quello che stava accadendo ma non fece niente e stette a guardare anche lei lo strano contenuto della cesta magica. Quando aprirono il coperchio le fanciulle videro un bambino straordinario e mostruoso insieme per metà umano ma con le gambe formate da spire di serpenti e disgustose squame di rettili.

Solo a quel punto la cornacchia volò via per avvertire Atena, ma ormai era troppo tardi, aveva tradito la sua fiducia e niente la poteva riabilitare agli occhi della dea. La sua punizione fu dura la dea la ripudiò per sempre e da allora scelse come animale a lei sacro la civetta.

Se ho catturato la vostra attenzione allora dovete venire ad assaporare i colori e i profumi di questo luogo e vi assicuro che ne rimarrete entusiasti.


Italiana: il nuovo romanzo di Giuseppe Catozzella

Mimma Sprizzi

Provate ad avvicinare molto agli occhi qualcosa che volete vedere molto bene, volete farlo  perché avete l’urgenza di comprenderla a fondo. Quello che accadrà anche avendo una vista perfetta sarà di vedere l’oggetto della vostra indagine in modo sfocato e per nulla chiaro. Bisogna allontanarsi dall’oggetto per guardarlo a fondo, per ottenere la nitidezza dell’immagine che vi porterà alla verità. Con questa prospettiva ben chiara, leggere Italiana di Giuseppe Catozzella aiuta a capire visceralmente la Calabria, l’Italia, la guerra civile per l’unità, e perfino l’enorme senso di libertà e di dignità che alberga in chi crede nel sogno di un mondo migliore. La narrazione insomma di un mondo lontano, distante quanto basta per comprenderlo realmente.

La vicenda raccontata in Italiana si dipana poco prima dell’Unità di Italia.

E’ la storia di Maria Oliverio, nata nella miseria di una terra povera, quella della Sila calabrese contadina e montanara. La vita non è semplice: Maria trascorre gli anni prima dell’adolescenza in una casa alle pendici del bosco. Zia Maddalena, soprannominata “Zia Terremoto”, sarà per anni la sola persona con cui dividere le giornate, poiché anche la donna era rimasta sola dopo che il marito era andato a vivere nei boschi. Maria cresce conoscendo la miseria e la fatica, il sacrificio e la rassegnata sottomissione delle donne, donne che però imprimono nell’animo della bambina Maria il senso di libertà e giustizia, che la porterà ad essere la prima brigantessa del sud Italia.

Gli echi degli insegnamenti di sua nonna dovevano accompagnarla nei boschi. Quella nonna vissuta in un piccolissimo villaggio di montagna sopra Lorica, che ripeteva senza sosta che in montagna “Non ci sono i padruni!  in montagna i padroni non ci arrivavano e si viveva con il cuor più leggero”

Maria sceglie la rivolta, la resistenza a quella che vive come una guerra che li libererà dalla sottomissione , e dalla povertà. Diventa La brigantessa Ciccilla. E’ legata alle sue radici, Teresa, legata a quello che aveva saputo dalla  “zia Terremoto”,  inghiottita anche lei dal bosco della montagna per seguire il marito che insieme ad altri compagni, assaltava le masserie dei nobili e dei gentiluomini, cercando di non fare feriti; poi tornava in paese e divideva il maltolto con i braccianti.
– Fa come fa il bosco- aveva detto zia- si riprende ciò che è suo – Ziu’ tiene a testa china i suogni- suogni di un avvenire giusto, suogni grandi-”

Ciccilla è diversa,  si taglia i capelli, vive come un uomo, combatte con il coraggio di una donna.  Le fa compagnia una lupa addomesticata, anche lei simbolo vivente di bellezza e forza.

Ciccilla diventa famosa: di lei scrivono i giornali, delle sue gesta racconta perfino Alexandre Dumas.

“Ciccilla passa la giovinezza nei boschi, apprende la grammatica della libertà, legge la natura, impara a conoscere la montagna, a distinguere il giusto dall’ingiusto, e non teme di battersi, sia quando sono in gioco i sentimenti, sia quando è in gioco l’orizzonte ben più ampio di una nuova umanità. Il volo del nibbio, la muta complicità di una lupa, la maestà ferita di un larice, tutto le insegna che si può ricominciare ogni volta daccapo, per conquistarsi un futuro come donna, come rivoluzionaria, come italiana di una nazione che ancora non esiste ma che forse sta nascendo con lei”

Una Calabria bellissima dunque, piena di poesia, di forza, di miseria ma anche di grande voglia di riscatto. La fotografia di una terra che vorremmo ci somigliasse di più.


Anno internazionale dell’economia creativa per lo sviluppo sostenibile

Maria Loscrì

Se la bellezza salverà il mondo, la creatività ne sarà, certamente, il motore propulsore.

Pur nell’estrema familiarità che caratterizza il concetto di creatività, ben sappiamo che l’idea di essere creativi nell’arte, piuttosto che nelle scienze o nell’economia o nell’allevare bambini o, ancora, nello scrivere libri, non incontra sempre un puntuale e preciso accordo anche in considerazione della estrema varietà di manifestazioni che caratterizzano un prodotto che può essere definito “creativo”. Altrettanto dibattuta è la considerazione se creativi si nasce o si diventa. L’unica certezza che sembra emergere, in un tale contesto di elusività, è che il mondo attuale, accomunato da un momento di grave crisi multiforme e multisettoriale, sembra non poter prescindere dalla creatività, non solo in campo culturale e artistico, quanto anche in campo socio-economico.

Non a caso, la settantaquattresima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, su proposta specifica dell’Indonesia, ma sostenuta da più di ottantuno paesi, ha dichiarato il 2021 “Anno internazionale dell’economia creativa per lo sviluppo” chiamando in causa, dunque, la creatività e la cultura quali fattori determinanti delle sfide globali cui è chiamato a far fronte il mondo con l’Agenda 2030, ma soprattutto come settori chiave della ripresa post pandemica. Ma non solo…creatività e cultura, contribuendo al dialogo e alla comprensione dei popoli sono, al tempo stesso, ambiti fertili per l’innovazione e per una crescita innovativa e sostenibile.

Il Terzo Forum Mondiale dell’UNESCO sulla Cultura e le Industrie Culturali, con la Dichiarazione di Firenze del 4 ottobre 2014, riconoscendo il ruolo chiave delle comunità come attori per il cambiamento, aveva già posto l’accento sui settori dello sviluppo sostenibile nei quali la cultura porta valore aggiunto riuscendo, in questi termini, a superare una dimensione puramente monetaria della programmazione territoriale, per il tramite delle espressioni culturali, della salvaguardia del patrimonio materiale e immateriale, della promozione della diversità culturale, dell’urbanistica e dell’architettura.

Nella nuova agenda politica la cultura non può non avere piena integrazione nelle strategie di sviluppo sostenibile, così come uno sviluppo economico e sociale inclusivo deve fondarsi su sistemi di governance della cultura e della creatività che rispondono alle esigenze e ai bisogni delle popolazioni così come le aree urbane e rurali non possono non venire in considerazione come dei veri e propri laboratori per lo sviluppo sostenibile e, allo stesso modo, il potenziale delle industrie culturali, che costituiscono il cuore dell’economia creativa, deve essere sfruttato pienamente per stimolare un’innovazione che sia al servizio della crescita economica, della piena occupazione produttiva e dell’esistenza di opportunità di impiego dignitose per tutti.

Castello di Corigliano

L’impegno di tutti e di ciascuno deve essere, dunque, quello di adottare misure concrete nel contesto di un partenariato globale per promuovere ambienti, processi e prodotti creativi che favoriscano il potenziamento delle capacità umane e intellettuali, la creazione di strategie di investimento innovative, in grado di sostenere la ricerca, l’innovazione e soprattutto la produzione locale di beni e servizi culturali, la costruzione, l’utilizzo e il costante aggiornamento di indicatori di valore e di impatto al fine di monitorare e misurare il contributo della cultura allo sviluppo sostenibile, anche attraverso la raccolta, l’analisi e la diffusione di informazioni e di statistiche, nonché buone prassi in politica.

Louis Pasteur, scienziato francese ben noto per le grandi scoperte realizzate, a metà dell’Ottocento, con l’intento di affrontare alcuni fra i più gravi problemi che, all’epoca, attanagliavano l’agricoltura, l’industria agraria, l’allevamento sosteneva, a ragion veduta, che “il caso favorisce la mente preparata”.

Una regione come la Calabria, terra di cultura, emozione, diversità potrebbe avere le carte in regola per affrontare le grandi sfide globali e candidarsi al successo ma, la domanda che sorge spontanea è: “le menti sono preparate per poter essere favorite dal caso?”

Nella programmazione 2021/2027 l’Europa ha dato ampia dimostrazione del valore fondante riconosciuto alla cultura e alle imprese creative prevedendo un aumento sostanziale di risorse stanziate per il sostegno dei settori culturali e creativi e delle opere audiovisive europee. E la cultura come veicolo di coesione economica e sociale è un tema particolarmente sfidante per l’Italia e per la Calabria dove la Cultura e il Patrimonio Culturale costituiscono il più grande asset disponibile ma, paradossalmente, anche il meno valorizzato per trarne e mettere a sistema, benefici multiformi e multisettoriali, comprese le co-programmazioni e co-progettazioni territoriali.

La grande sfida che la Calabria deve saper affrontare nei prossimi anni, anche in vista della nuova consiliatura regionale, sarà proprio quella di essere in grado di predisporre adeguate strategie di investimento “bottom up”, nelle politiche di sviluppo territoriale connesse a cultura e turismo, ossia dando spazio, dopo decenni di politiche “calate dall’alto” ed “eteroimposte”, a politiche di programmazione, ancor prima che di progettazione, generate dagli stessi destinatari delle misure previste, ossia dalle comunità locali rese protagoniste di un sistema di governance etica e sostenibile.

Di particolare interesse potrebbe essere, nella programmazione regionale futura, ad esempio, l’introduzione di adeguati strumenti e misure per l’integrazione degli interventi culturali, economici e sociali e delle risorse pubbliche e private; l’introduzione di una strategia unificante di numerosi microinterventi, anche in aree rurali, interne, con potenzialità turistiche a oggi poco sfruttate; l’integrazione dei bandi attinenti al settore culturale e a quello turistico-commerciale al fine di sfruttare le sinergie esistenti tra i due ambiti.

Se è vero, come è vero, che la Calabria è ancora una regione capace di stupire il viaggiatore per i suoi “contrasti”, per le sue singolarità ambientali e paesaggistiche, per le sue meraviglie ecologiche, per le sue diverse nature, per i suoi intrecci culturali, per la sua storia antichissima, per i suoi “mille e uno” volti, deve essere altrettanto vero che la Calabria non può e non deve presentarsi impreparata per consentire al caso di favorirla.


Il bisso, la filatura e la tessitura nel mondo antico

Bakhita Ranieri

Fin dai tempi più antichi le conchiglie hanno svolto un ruolo importante nella vita dell’uomo. Grazie all’enorme varietà di forme e dimensioni, hanno assunto usi e significati diversi. Inizialmente trovate in natura poi, successivamente lavorate, vennero utilizzate come recipienti, come strumenti musicali, come moneta, come monili; in seguito già a partire dai greci e dai romani, anche come elemento decorativo nelle varie forme artistiche sia in pittura che in scultura che in architettura. Dal bisso si ricavavano pregiatissimi e costosi tessuti con i quali si confezionavano, probabilmente già nell’antichità, vesti ostentate come veri e propri status symbol dai personaggi più influenti delle società. Molti archeologi e filologi hanno discusso sulla possibile identificazione già a partire dall’Età del Ferro della seta marina con la fibra identificata durante tutto il I millennio a.C. dal termine bisso. Un tempo esisteva un raro e costoso materiale tessile dai riflessi dorati e scintillanti, simili alla seta: il bisso marino, prodotto della Pinna nobilis Linneo, un grande mollusco bivalve che vive in diverse zone del Mediterraneo, in alcuni tratti costieri della Sardegna, del Golfo di Taranto, di Gallipoli e Porto Cesareo nel napoletano, della Dalmazia e della Grecia.

Fra le produzioni tessili la Pinna nobilis era una delle più ricercate, produceva filamenti adatti a essere lavorati tramite cardatura e filatura, fino ad ottenere un filato assai sottile e resistente.

Da abbondanti raccolte del mollusco, le popolazioni ricavavano sufficiente filo per realizzare tessuti o ricami ed impreziosire vesti di personaggi di alto rango in campo religioso come in campo politico e persino nello spettacolo come danzatrici e celebri etere, chi doveva apparire e rifulgere di luce doveva indossare vesti in bisso. E vi era una vera e propria industria del bisso supportata da manodopera abbondante e a buon mercato.

In varie fonti, si narra che personaggi illustri di epoca romana solevano indossare toghe dall’aspetto aureo poichè, all’impatto con la luce solare o con riflessi di luci artificiali, la bruna e bronzea tonalità del tessuto si illuminava di riflessi dorati, caratteristica che è tipica del bisso.

La lavorazione del bisso piuttosto laboriosa ha origini antichissime. Quasi sicuramente nacque, in area mediterranea e in Medio Oriente dove sorsero le prime civiltà (Egizi, Fenici, Caldei, Ebrei) che furono in grado di raccogliere e trattare questi filamenti con straordinaria abilità: dopo la raccolta infatti il bisso grezzo deve essere pulito e pettinato più volte, messo in ammollo in succo di limone e infine filato a mano fino ad ottenere un prezioso tessuto serico, finissimo. Per ottenere 1 kg di bisso grezzo e produrre così 200-300 grammi di seta di bisso marino, occorrono fino a 1.000 conchiglie, è quindi facilmente intuibile perchè questo materiale sia diventato un prodotto di lusso.

Si poteva ottenere una filatura a filo liscio, adatto per i ricami, o a filo ritorto, cioè doppio, più resistente e quindi adatto per l’orditura che poteva essere a muro, come si usava in Grecia e in Persia, oppure a terra, come in Mesopotamia. La filatura manuale, eseguita con rocca e fuso di legno di piccole dimensioni, era molto difficile, l’abilità delle filatrici consisteva nell’ottenere filati sottilissimi e di diametro uniforme. La lavorazione più diffusa era quella a maglia per realizzare indumenti come scialli, guanti, cappelli e cravatte. Ma i fili venivano anche tessuti, o ricamati su stoffe oppure lavorati in modo particolare per formare una sorta di pelliccia.

Inoltre non solo il bisso, ma anche la conchiglia intera era utilizzata: la carne come cibo, le perle come decorazione, la madreperla per bottoni e per lavori di intarsio, il guscio per vasi, paralumi o come souvenir e i ciuffi di bisso come rimedio nella medicina popolare.

Bisso marino ripulito

Quasi tutto quello che oggi sappiamo sulla raccolta della Pinna nobilis, sulla raccolta del bisso, sulla fabbricazione e sulla lavorazione del bisso marino proviene da fonte del XVIII, XIX e della prima metà del XX secolo. Quasi la metà di tutti i reperti catalogati è semplicemente lavorato a maglia rasata, in parte con piccoli disegni. Sono conservati anche oggetti fatti all’uncinetto.

È Pausania infine a fornirci la più antica informazione occidentale sulla seta e il modo di produrla. Lo fa parlando di materie prime per la filatura, vegetali e coltivate nel territorio greco dell’Elide.

Il più antico manufatto in seta marina, rinvenuto archeologicamente, risale effettivamente solo al IV secolo: le fibre, vennero alla luce nel 1912 in una tomba femminile ad Aquincum (Budapest), per essere poi distrutte da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale.

È del XIV secolo una cuffietta finemente lavorata a maglia rinvenuta nel 1978 durante una campagna di scavi archeologici presso la Basilica di Saint Denis a nord di Parigi. Già alla fine del XVIII secolo sono testimoniati tessuti con decorazioni intessute e ricamate di bisso marino. Nella prima metà del XIX secolo appare la lavorazione dei ciuffi di fibra a pelliccia. Al Field Museum of Natural History di Chicago è esposto un manicotto acquistato da Taranto nel 1893 per l’esposizione mondiale di Chicago. Si tratta di una lavorazione cosiddetta a pelliccia con i ciuffi di fibra cuciti interi, strato su strato, su di un tessuto di base, il cui risultato è una pelliccia che brilla dei dorati fili di bisso.

Berretto in bisso marino fatto a mano, XIV secolo

La colorazione naturale del ciuffo della Pinna nobilis ripulito e pettinato, è variabile, a seconda della posizione e forse anche in base all’età della conchiglia. Il colore quindi potrà variare dal bronzo al rame, al giallo oro, al marrone, al verde oliva fino al nero.

Il bisso viene spesso affiancato alla porpora, sostanza colorante con la quale i Fenici tingevano tessuti preziosi. La pesca delle pinne utilizzate per la confezione del bisso, come anche quella dei murici per la porpora, avrebbe avuto uno sviluppo continuativo nel periodo bizantino tanto che ancora nell’VIII secolo si esportavano bisso e porpora non soltanto nelle corti longobarde, ma anche in quelle occidentali e orientali.

La seta fu nota solo a partire dall’età ellenistica e le stoffe pregiate e costose di seta ebbero una maggiore diffusione a partire dall’età imperiale romana. In Grecia le stoffe di seta venivano importate per poi essere disfatte e, con il filo ottenuto, poter confezionare nuovi tessuti.

Fino alla metà del secolo scorso il bisso veniva ancora raccolto e lavorato in Puglia, nel territorio di Taranto con il nome di lanapenna. In Sardegna, invece, la morbida fibra dal colore bruno-dorato viene filata, tessuta e utilizzata per realizzare ancora oggi preziosissimi ricami.

Bisso lavorato a uncinetto

Le tecniche della filatura e della tessitura fanno parte della vita quotidiana dell’uomo fin dai tempi più remoti. Ogni famiglia provvedeva autonomamente alla maggior parte delle stoffe necessarie per la confezione delle vesti. Era indispensabile quindi sia filare che possedere un telaio.

Data la deperibilità del legno con i quali i telai erano fabbricati, non se n’è conservato nessuno ma spesso si trovano nel terreno, come indicatori archeologici, un gran numero di pesi da telaio in terracotta. La necessità di coprirsi per ripararsi dal freddo e dalle intemperie, avrà prima indotto l’uomo a fabbricare tessuti rozzi in sostituzione delle pelli, in seguito, l’ambizione di ornarsi avrà sviluppato la produzione di tessuti più fini per colori e disegni.

Le donne vengono indicate generalmente come filatrici e tessitrici: il lavoro della lana è il simbolo della donna come il lavoro delle armi quello dell’uomo.

Gli elementi più comuni che indicano l’attività della filatura e quella conseguente della tessitura sono le fusaiole e i rocchetti. Talvolta sono documentati pesi da telaio di forma per lo più troncopiramidale. Associata al fuso doveva essere la conocchia, che si ritrova solo in corredi ricchi, in osso, bronzo o in vetro, negli altri doveva essere in legno come il fuso.

Nell’antichità la tessitura era gestita in ambito familiare o con piccole imprese artigianali, ma già presso i Romani le fasi della lavorazione della lana e del lino cominciarono ad essere organizzate in officine specializzate in una sola lavorazione dove la manodopera era fornita dagli schiavi. Con la rete dei commerci giungevano in Italia materie prime e coloranti non solo dal Mediterraneo ma anche dall’Oriente.

Attraverso fonti prevalentemente letterarie, si ha davanti un excursus di figure femminili legate al lanificium in particolare eroine mitiche e divinità, collocate in epoca arcaica dagli autori che ne danno testimonianza. Per Omero, la pratica della tessitura e le competenze ad essa inerenti rientrano tra le caratteristiche più illustri di una donna di nobili origini. A Troia Elena (Iliade III, 165–169) e Andromaca (Iliade XXII, 566–569) sono descritte occupate a tessere, nei loro appartamenti, vesti ricamate. Sono indicative anche le scene in cui la maga Circe o la ninfa Calipso lavorano al telaio accompagnandosi con il canto. La prima, “Circe dentro cantare con bella voce sentivano, tela tessendo grande e immortale, come sono i lavori delle dee, sottili e splendenti e graziosi” (Odissea X, 220–224,), la seconda “cantando con bella voce e percorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva(Odissea V, 61–62). Il telaio in uso nel mondo antico era quello verticale, al quale le donne potevano tessere stando sia in piedi che sedute, Ovidio narra della lavorazione della lana cui sono particolarmente dedite le figlie del re Minia. Prima si accenna alla filatura, subito dopo si fa riferimento all’applicazione alla tela, ovvero alla tessitura: “Soltanto le figlie di Minia restano a casa… cardano la lana, o torcono fili col pollice o stanno curve sul telaio… e una, tirando con agili dita il filo, dice: mentre le altre fanno vacanza per assistere a quella fandonia di rito noi, da parte nostra, impegnate nelle attività di Minerva, dea migliore, rendiamo più leggero… l’utile affaccendarsi delle mani…”.

L’arte del tessere era tenuta in altissima considerazione presso gli antichi che onoravano Atena Minerva quale protettrice delle opere femminili ed in particolare della tessitura. È ben noto il mito di Aracne, l’abilissima tessitrice della Lidia, che non volendo riconoscere di aver già ricevuto dalla dea le sue straordinarie capacità, osò sfidarla in una gara, vinta, fu poi trasformata da Atena in ragno, simbolo dell’abilità di filare e di tessere. La personalità di Atena, in particolare nel suo aspetto di Ergane, è contraddistinta dalla filatura e dalla tessitura, dono della metis divina al sapere femminile. Numerose raffigurazioni vascolari di V a.C. illustrano scene di donne impegnate in vari momenti della filatura e della tessitura. Rappresentate sedute su uno sgabello, esse tengono le gambe leggermente divaricate e a volte la veste arrotolata sulle ginocchia, in una posa che suggerisce movimento e instabilità dinamica, con le braccia sollevate, inoltre, reggono la conocchia in una mano e il fuso nell’altra, mentre un kalathos poggiato ai piedi raccoglie il tessuto. Il telaio a pesi è il tipo di telaio che veniva usato nell’antichità. È un telaio molto semplice che ha la caratteristica di cominciare a costruire il tessuto contrariamente ai telai moderni, nella sua parte alta. Fu il primo tipo di telaio inventato dall’uomo, nel periodo neolitico e rimase in uso presso popoli antichi del Mediterraneo fin dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente. Il telaio verticale era rigido e poneva dei limiti alla dimensione dei tessuti. Se si dovevano ottenere pezze di lunghezza superiore all’altezza delle tessitrici, era inevitabile che si sviluppassero piani di lavoro rialzati.