Europa, il futuro è nelle tue mani!

Scopriamo la nuova piattaforma digitale per il dialogo con i cittadini della UE

Un passo preliminare all’avvio di una serie di dibattiti e discussioni, che consentiranno ai cittadini di tutta Europa di condividere le loro idee per contribuire a plasmare il futuro dell’Europa, questa è in estrema sintesi la Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFe).

La CoFe mira a conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell’UE. Costituirà uno spazio di incontro, per ora virtuale, per un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con i cittadini europei sulle questioni che li riguardano e che incidono sulla loro vita quotidiana.

La Conferenza sarà incentrata sulle principali tematiche alla base delle politiche di ripresa e resilienza individuate dal piano Next Generation EU come la salute, i cambiamenti climatici, l’equità sociale, la trasformazione digitale, il ruolo dell’UE nel mondo e il rafforzamento dei processi democratici che governano l’UE. Temi che coincidono con le priorità generali dell’UE e con le questioni sollevate dai cittadini nei sondaggi d’opinione.

Saranno i partecipanti a decidere quali argomenti trattare nell’ambito della conferenza. La COFE getta le basi per eventi avviati dai cittadini, da organizzare in collaborazione con la società civile e i portatori d’interessi a tutti i livelli, i parlamenti nazionali e regionali, le istituzioni europee, le parti sociali e il mondo accademico. La loro partecipazione al processo è essenziale per garantire il massimo coinvolgimento e la massima diffusione.

Fondamentale per l’avvio del dialogo con i cittadini risulta essere la piattaforma digitale multilingue interattiva che, a partire dal 19 aprile, consente a tutti di presentare le proprie idee online, di consultare gli eventi a cui partecipare o di inserire propri eventi sui temi di interesse. Proprio di questo si parlerà durante l’evento Europa, il futuro è nelle Tue Mani! Scopriamo La Nuova Piattaforma Digitale Per Il Dialogo Con I Cittadini Della UE Del Prossimo 15 Maggio Dalle Ore 17.30 Sulla Piattaforma Zoom. Un webinar organizzato dall’Edic CalabriaEuropa e la Rete di cittadini Calabria Condivisa con la collaborazione di Fimmina TV.

Si alterneranno coordinati da Raffaella Rinaldis: Loredana Lo Faro Portavoce di CALABRIA CONDIVISA, Loredana Panetta dell’Associazione EUROKOM, Alessandra Tuzza responsabile EDIC CALABRIAEUROPA dI Gioiosa Jonica, EEN di Unioncamere Calabria, Giuseppe Caristo di Calabria Condivisa e Pier Virgilio Dastoli rappresentante del CIME Consiglio italiano del Movimento Europeo.

per partecipare: su zoom il 15 maggio alle 17:30

https://us02web.zoom.us/j/87165035249?pwd=UnBCcjZQaEQ1YnV2WnZ3cnBCclpuQT09

ID riunione: 871 6503 5249 Passcode: 385688


Commemorare la festa del lavoro al Sud Italia

Anna Pizzimenti

Fra le pieghe delle pagine della storia, di quelle che si chiudono a ventaglio anche sulla memoria, si cela una fitta trama di racconti, che narrano di eroi caduti sul campo del lavoro.

Eroi vestiti di fatica e di pelle ispessita dal sole, dalle braccia tornite dalla zappa e dalla zolla, dalla schiena curvata da un raccolto, da destinare al padrone di turno, riservando per sé miseria e sogni.

E’ la storia dei contadini del Sud Italia, ma, più in generale, è il ritratto color seppia delle condizioni di lavoro degli abitanti del Meridione. Una storia dimenticata, o solo incidenter tantum menzionata, nella Giornata dedicata dal 1890 a tutti i lavoratori, proiettando la percezione che il lavoro da tutelare sia solo quello nelle fabbriche, quello per le otto ore giornaliere, per il contenimento delle quali, negli anni successivi alla Rivoluzione Industriale, gli operai si coalizzarono, erigendosi a Movimento per il riconoscimento dei propri diritti e di condizioni di lavoro più umane.

Lavoratori di serie A e lavoratori di serie B?

Sembrerebbe di si, se, a distanza di 73 anni, si continua a non dare il giusto peso alla strage di Portella della Ginestra, avvenuta in Sicilia proprio il 1° maggio 1947, e si racconta ancora oggi solo della grande manifestazione di Chicago del 1887.

E’ un nuovo furto della nostra memoria storica e della nostra identità, forse anche della nostra dignità di uomini e donne del Sud.

Portella della Ginestra è una località montana che ricade nel comune di Piana degli Albanesi, nella provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di contadini si raduna lì per festeggiare nuovamente, dopo il ritorno della democrazia, la festa dei lavoratori. Ma nulla in quell’assembramento di uomini, donne e bambini può fare pensare alle moderne scampagnate o alle gite fuori porta: sono contadini, che si riuniscono per manifestare contro il latifondismo e chiedere che le terre incolte vengano loro assegnate, in ottemperanza dei Decreti Gullo. Su quella folla, una banda di criminali, capeggiata da Salvatore Giuliano, spara a sangue freddo, cagionando la morte, nell’immediatezza, di undici persone, fra cui una bambina di otto anni e tre adolescenti, a cui si aggiungono altre quattro vittime, morte in seguito alle ferite riportate.

Si è soliti ricordare questa strage in occasione della “Giornata delle vittime della mafia”, perché di un barbaro assalto mafioso si trattò, ma frettolosamente si sorvola sugli antefatti che diedero occasione a quell’agguato e che si ricollegano alle misere condizioni dei contadini meridionali e ad un progetto per l’emancipazione e per l’affrancamento dal bisogno, che costituivano la ratio dei Decreti Gullo su richiamati.

E’ la storia dell’illusoria “riforma agraria”, avviata, dopo la caduta del fascismo, dall’allora Ministro dell’Agricoltura nel secondo gabinetto Badoglio, il cosentino Fausto Gullo, tra l’estate del 1944 e la primavera del 1945: il sogno delle concessioni ai contadini delle terre incolte, pietra miliare di un percorso di riscatto dalla povertà e di partecipazione effettiva alla rinata democrazia, prima tappa verso la costruzione di quella Repubblica, che l’art. 1 della Costituzione vorrà fondata sul “lavoro”. Cosa importa se di lavoro in fabbrica o lavoro nei propri campi si tratta? E’ il lavoro l’unico denominatore che rende tutti i cittadini titolari di “pari dignità”.

Un sogno che svanisce proprio nei giorni in cui la neonata Repubblica Italiana emette i suoi primi vagiti, in cui Gullo viene sostituito all’Agricoltura dal democristiano Antonio Segni e in cui i latifondisti rivendicano i propri diritti su quelle terre, che i “cafoni” già sentivano proprie e a cui “mai” i signori le avrebbero cedute. Sono i giorni del barbaro assassinio di Giuditta Levato, la trentunenne contadina che, insorta a Calabricata contro quell’usurpazione della terra, muore, incinta di sette mesi, raggiunta da un colpo di fucile al ventre. E’ il 28 novembre 1946.

Muore innocente, come qualche mese dopo a Portella della Ginestra morirà innocente la ventritreenne Vita Dorangricchia, il cui nome ho sentito pronunciare per la prima volta da un’alunna della Scuola Primaria, ad una manifestazione in ricordo delle vittime di mafia.

Ricorrere unicamente e univocamente a questa etichetta, vittime di mafia, equivale a commettere un adulterio storico! Come osserva Romano Pitaro ne “L’Ape Furibonda”, “quel decennio di lotte contadine sfociato a Calabricata con un assassinio cui ne seguirono altri  ancora più tragici (l’Autore ricorda Portella della Ginestra e Melissa, n.d.s.) ebbe un infausto epilogo, come scrisse il dirigente comunista Paolo Cinanni: «il fallimento della riforma agraria e l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei ghetti dell’immigrazione»”.

Da lì iniziò quel tragico capitolo della storia dei giovani del Sud, imboniti dall’inno degasperiano “Imparate una lingua e andate all’estero”, che avrebbe avuto un decorso e un’evoluzione certamente diversi se a quel bivio, settantacinque anni fa, fosse stata fatta la scelta di realizzare la dignità dell’Uomo, attraverso la dignità di tutti i lavoratori.

Se si condivide oggi l’idea che la memoria non è “un deposito dove sono ammassati inerti i fatti del passato, ma è una miccia che accende il presente”, che ci consente di vivere “il futuro come promessa”, come disse Raniero La Valle in un suo discorso ora pubblicato sulle colonne di Questione Giustizia, commemorare il primo maggio significa riscoprire il significato e il valore che noi, uomini e donne del Sud, nell’anno 2021, diamo alla parola “lavoro”.

E’ la storia dei nostri contadini, è la nostra storia: dobbiamo ricordarla e onorarla, per, se ancora possibile, scrivere con parole nuove il nostro futuro.


Calabria e calabresi nel mondo: un approccio sistemico con una visione 4.0

Maria Loscrì

È una terra inquieta, quella di Calabria, in cui da secoli, ormai, si compie una rivoluzione lenta ma inesorabile, silenziosa, messa in atto, spesso in modo del tutto inconsapevole, da chi è costretto ad emigrare. Dall’Unità di Italia ad oggi, l’Italia è stato un paese profondamente segnato dall’emigrazione e la Calabria è stata ancor più intensamente incisa dalla partenza di giovani e meno giovani che hanno lasciato la terra natia per non farvi più ritorno, se non in veste di vacanzieri, più o meno occasionali. Ad una prima e intensa ondata migratoria post unitaria, caratterizzata, prevalentemente, da spostamenti oltreoceano, è succeduta una seconda fase, a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso, con prevalenza dei flussi in direzione dell’Europa. L’emigrato dei nostri giorni, invece, ha caratteristiche totalmente diverse rispetto al passato: il livello di istruzione è sempre più elevato, emergono nuove figure quali quelle dei nonni-genitori che trascorrono periodi sempre più lunghi all’estero, con figli e nipoti ed anche quelle dei migranti previdenziali, ovvero pensionati che si spostano a vivere in paesi in cui è in corso una politica di defiscalizzazione.

Per contro, vengono sempre più alla ribalta movimenti di idee e di pensiero che, appellandosi alle moderne proposte di turismo delle radici e turismo della memoria, trovano sempre più compiuta organizzazione in proposte formative accademiche, in modelli socio-culturali ed economici sostenuti a livello istituzionale e, più raramente, in slogan di appassionati cultori degli esigui fondi regionali che potrebbero essere destinati alla promozione dei viaggi della ri-scoperta delle identità perdute.

Sia i luoghi dell’esodo che quelli della partenza sono da sempre profondamente ridisegnati dal fenomeno migratorio: da una parte vi sono storie di dolore, di dispersione, di abbandono, di erosione di un sistema antico che viene lasciato alle spalle, dall’altro vi è un mondo nuovo che ha attirato a sé l’alterità, che ha ingenerato speranze e aspettative, che ha spinto al mutamento e alla ricerca del nuovo.

È un intero tessuto culturale, sociale, economico e anche politico che viene in considerazione quando si parla dei fenomeni migratori, vecchi e nuovi, e per la Calabria il peso è ancora più gravoso rispetto che altrove. Una terra di grandi contraddizioni, di contrasti geografici, climatici, storici, antropologici, quale è la nostra, esprime anche in ordine all’emigrazione e alle dinamiche che caratterizzano il fenomeno, zone chiaroscurali, pressappochismo e vecchie logiche di sistemi che stentano a tramontare, pur inneggiando all’esigenza del nuovo.

È fuor di dubbio che i figli di Calabria abbiano espresso talenti e virtù nei luoghi che li hanno accolti, così come è fuor di dubbio che la nostra regione possa vantare bellezze paesaggistiche, ricchezze enogastronomiche, peculiarità del Patrimonio Culturale la cui narrazione molto spesso, troppo spesso, è stata affidata a voci esterne. Altrettanto certo è che non sfugga ricorrenza per tanto commossa decantazione, anche in consessi che, sia pure in funzione consultiva, potrebbero esprimere capacità programmatica incisiva e sistemica, qualora fossero composti da membri dalle comprovate e certificate professionalità. Eppure tutto ciò non avviene e, nei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, si assiste alla puntuale ripresa del ciclo di vita di matusalemmi affezionati alla Calabria che inseguono il loro sogno di continuare a musealizzare quella che fu la loro amata terra, senza mai riuscire a realizzarlo e nell’ostentare il vecchio ed esausto bisogno di continuare, in modo insistente ed ostinato, nel loro fallimento generazionale, invocano la presenza dei giovani, non per senso di amorevole e compassionevole dignità verso ciò che non è mai stato e mai sarà, ma solo nel subdolo tentativo di risucchiare energie giovani e vitali nel vortice dei loro documentati insuccessi.

Come si può pensare, in un ventunesimo secolo che ha conosciuto la più triste e grave forma di globalizzazione nella tragedia della pandemia che ha colpito il mondo intero, di accomunare i Calabresi sparsi nel mondo con idee progettuali miseramente fallite da più generazioni? Si può veramente essere ingenui al punto tale da ritenere che la forza coesiva di almeno tre generazioni che vivono sparse sull’intero globo possa essere rinvenuta nella nostalgica idea di rivedere la casa diroccata e abbandonata in borghi altrettanto solitari e sperduti che furono dei propri avi? Magari al costo di una vacanza ai Caraibi piuttosto che alle Seychelles?

Sfugge, o forse non è facilmente comprensibile a chi ha più o meno volutamente calcificato una forma mentis, che le protagoniste vere e indiscusse, nei processi di valorizzazione identitaria, soprattutto se intergenerazionale, sono le comunità, le sole titolari del diritto-dovere di partecipare attivamente alla perpetuazione del proprio Patrimonio Culturale. La rappresentanza delle comunità stesse richiede un’imprescindibile senso di responsabilità verso tale considerazione così come richiede un’imprescindibile livello di consapevolezza del valore che assumono le infrastrutture sociali. Ragionare in termini di capitale sociale, quando le comunità sono ampie e disperse quali quelle dei Calabresi nel mondo, è compito arduo che richiederebbe, anche da parte di organismi consultivi appositamente predisposti, un grado di sensibilità e preparazione che non appartiene, certamente, ai più affezionati sognatori dei finanziamenti a pioggia. Cui prodest, dunque, che tali nostalgici continuino ad occupare lo stesso posto ormai da decenni?

Il punto di partenza, assiomatico, nel creare valore attorno ad una calabresità pensata e vissuta in una dimensione 4.0 non può che essere rinvenuto nelle riflessioni di tre autori, Andorlini, Basile e Marmo i quali, in merito al valore catturato specificano che esso si produce nell’incontro tra le persone, è caratterizzato da un alto tasso di casualità e un basso livello di intenzionalità e pertanto si concretizza esclusivamente laddove luoghi ed esperienze sono in grado di accoglierlo, valorizzarlo e dargli spazio. Il valore catturato, nella nostra visione, è quello che produce la differenza tra i territori e, se da un lato si crea proprio grazie alla densità relazionale, dall’altro è una delle dimensioni che alimenta e rafforza quest’ultima. Valore catturato e densità relazionale producono un loop positivo che rende i territori più generativi in termini di prospettive e di possibilità future.

Lavoreremo senza sosta, anche negli organismi consultivi dei Calabresi nel mondo, affinché questa rivoluzione culturale possa compiersi!


IL CAPITALE SOCIALE DELLA CALABRIA: UN PATRIMONIO DA SCOPRIRE E VALORIZZARE

Maria Loscrì

Esiste una Calabria raccontata con il linguaggio del sublime sin dai tempi in cui i viaggiatori del Grand Tour vedevano in essa l’oggetto del proprio desiderio, variamente attratti ora dall’incantevole bellezza degli scenari, ora dagli spasmi di un territorio in continuo mutamento, ora dalle romantiche mulattiere, ora dalla presunta perfidia degli abitanti, ora dall’essere epicentro di una memoria cui attingere e ispirarsi.

Una terra disseminata qua e là di paesaggi scabri, quasi lunari, ricca di pascoli, rivi gorgoglianti e impetuosi, foreste secolari e frondose, sentieri serpeggianti per passare attraverso luoghi solitari e terre spopolate e incolte.

Vi è nei resoconti del Grand Tour quel tanto di creatività che appartiene a storici irregolari come Erodoto e Svetonio, che i viaggiatori finiscono inavvertitamente per imitare. Ma c’è anche qualcosa che affiora da un livello più profondo: un intenso amore per la grecità che trae linfa ora da un rudere, ora da un ritmo musicale, ora da una lingua perduta: paesaggi dell’anima dominati da un’unità intatta dove si annidano i fantasmi della memoria. E ciò ammaliava, seduceva, incoraggiando viaggi in una terra molto spesso ardua, aspra, con un quadro orografico estremamente composito che il dissesto geologico, il disordine idrico e una serie interminabile di movimenti tellurici avevano reso ancora più sublime.

Nell’immaginario del tempo la Calabria era una sorta di locus amoenus che risuonava ancora delle lingue perdute, abitato da popolazioni arcaiche, ricco di castelli e abbazie caratterizzati da un’architettura imponente ma impenetrabile allo stesso tempo. Un’alchimia straordinaria di una terra capace di conciliare nelle affinità gli opposti, nelle metamorfosi il principio.

 

Capocolonna (Crotone)

Ancora oggi la Calabria, per il viaggiatore che voglia conoscerla, scoprirla, apprezzarla, è la terra in cui il paesaggista troverà luoghi di bellezza sorprendente, l’antiquario le rovine che non sono ancora state studiate, il botanico scoprirà le piante e i fiori più rari d’Europa mentre il filosofo sarà colpito dalla grandezza dell’antica Grecia che ancora vive in pietre e memorie. Ma in questa linea serpentina del sublime in cui la dimensione del viaggio e della scoperta si ancorano in maniera indissolubile con quella della vita e della natura di questi posti, vi è un elemento rimasto sullo sfondo, quasi inesplorato, che racchiude in sé, con molta probabilità, le ragioni per cui il viaggiatore di oggi, così come quello di ieri, sfiora questa terra per andare via subito, la accarezza senza assaporarla pienamente, la vive di passaggio o, qualche volta, la evita: rimane sullo sfondo la gente di Calabria, i vicoli che risuonano di voci gioiose, le rughe che hanno visto generazioni incontrarsi nei mestieri della tradizione, i campi che conservano il sudore della fronte di chi, dall’alba al tramonto, scandiva i ritmi del faticoso calendario rurale, intonando canti e melodie, il dolore di chi ha dovuto abbandonare la casa natia per cercare il pane altrove, il coraggio delle donne, mogli, madri, figlie che hanno retto sulle proprie spalle il peso delle mille attese e delle altrettante illusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti.

Come ha ben riflettuto Augusto Placanica, “Un popolo non soggetto, ma oggetto di storia”, caratterizzato da identità mobili presenti in una terra complessa e ricca di contraddizioni in cui il problema certamente politico delle tante e varie identità presenti nella regione, reclama una risposta e una soluzione politica, in senso lato, come politica delle immagini, delle rappresentazioni, delle narrazioni.

L’acuta penna di Berto ha additato con stupefacente precisione i responsabili di tale situazione: “Sulla Calabria s’è abbattuta una distruzione più maligna di quella dei terremoti, e i principali responsabili sono le amministrazioni locali – quasi tutte avide e ottuse – e i vari governi e governanti, che hanno sempre affrontato e continuano ad affrontare il problema del Mezzogiorno con stupefacente rozzezza”.

 

Parco della lavanda (Morano Calabro, Cosenza)

Aggiungeremmo, con visioni miope ed eterodirette, nella maggior parte dei casi avulse dal flusso di relazioni che accompagnano e caratterizzano, per la loro stessa natura, le comunità in quanto tali le quali, nella Calabria degli ossimori, racchiudono e comprendono, con tutta probabilità, il senso e la direzione di un intervento di programmazione e progettazione territoriale che non può più prescindere dal capitale sociale che ne è parte integrante. La vera scommessa di riscatto di questa ricca ma sfortunata terra non può che venire dalla (ri)scoperta di una voce del suo Patrimonio finora rimasta fuori scena, e forse non a caso. Non è più pensabile che si continui nella decantazione delle meraviglie contraddittorie della Calabria, così come avvenuto ad opera dei viaggiatori del passato così come non è più pensabile che chi occupa le poltrone di comando pensi di poter risolvere le tante problematiche incombenti a suon di slogan e formule già ampiamente proposte e sperimentate. Il sublime della Calabria risiede, e va ricercato, proposto e valorizzato nella complessità e nella densità delle relazioni che caratterizzano le sue comunità che, a ragion veduta, devono diventare protagoniste di una programmazione partecipata nella costruzione dei processi di cambiamento in cui si sviluppano consapevolezza e strategie di azione partendo dalla interazione di diverse capacità, sensibilità, competenze.

 

Cattolica bizantina di Stilo (Reggio Calabria)

I diversi volti della Calabria devono potersi comporre in un quadro unitario in cui il denominatore comune sia rappresentato da “comunità competenti”, ovvero da persone via via comprese in gruppi sempre più organizzati che abbiano un repertorio di possibilità e di alternative, dunque abbiano un “potere” di pensare e di agire, sappiano dove e come ottenere risorse, chiedano di essere autonome in quanto caratterizzate da capacità di autodeterminazione e autostima. Il cambiamento può e deve originare dal gruppo sociale poiché le persone hanno in sé e nelle comunità cui appartengono le risorse per produrre cambiamento e, d’altro canto, perché i processi di cambiamento siano realmente democratici, necessitano, obbligatoriamente, di una concreta partecipazione dei cittadini nella definizione, nella produzione, nella comunicazione e nella valutazione dei cambiamenti che riguardano la comunità. Maggiore è il problema da affrontare, maggiore sarà la necessità di interazione tra i soggetti, così come maggiore sarà l’esigenza di intensificare la densità delle relazioni fra gli stessi. Ciò significa, in altri termini, lavorare sull’elemento più inesplorato del Patrimonio, calabrese in particolare, ovvero sul capitale sociale. In questa nuova dimensione esplorativa, il calabrese che vive in Calabria, ma anche chi ha lasciato la propria terra natia e volge lo sguardo nostalgico alla casa paterna, comprenderà che ragionare in termini di cambiamento reale, praticato e non solo ben predicato, significa puntare sull’intensità del grado di coesione sociale esistente nelle comunità di volta in volta considerate per riferirsi ai rapporti che si instaurano tra le persone stesse e che stabiliscono reti, norme e fiducia sociale, facilitando il coordinamento e la cooperazione nell’ottica di un vantaggio reciproco. La questione è particolarmente delicata allorquando si tratta di processi di partecipazione su iniziativa di un soggetto pubblico che chiama in causa anche i processi della rappresentanza nell’ambito delle politiche sociali. Ed il tema è particolarmente spinoso in regioni come la nostra in cui la progettazione calata dall’alto ha determinato non pochi squilibri, e a più livelli, soprattutto con l’incalzare di tempi che impongono di coniugare l’universalizzazione dei principi con la localizzazione delle prassi. Come può, una regione come la Calabria, governata a suon di slogan e formule dal comprovato insuccesso, comprendere che la vera e unica svolta è rappresentata da processi di progettazione partecipata? A fronte dell’interrogativo, potremmo prospettare un’auspicabile inversione metodologica nella programmazione delle politiche per le nostre comunità, ovvero:

  • Incoraggiare interpretazioni pluralistiche dei problemi sociali, facendo interagire e, possibilmente, integrando diversi tipi di conoscenza
  • Dando voce alle narrative minoritarie
  • Creando legami tra i gruppi, le persone, le organizzazioni che condividono uno stesso problema, di una determinata comunità
  • Identificando i punti di forza già esistenti in una data comunità

L’inversione di approccio metodologico e fattuale potrebbe certamente consentire, non solo al novello viaggiatore, ma al calabrese stesso, di cogliere un che di sublime in una terra che aspetta ancora oggi di narrarsi dopo essere stata a lungo narrata.


7 tesi da condividere

Renato Scordamaglia

Sono trascorsi più di 20 anni dalla nascita del sistema pubblico di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, a seguito dell’accordo tra il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Venti anni di costruzione di una rete nazionale (ex Sprar/Siproimi, oggi S.A.I.) che nonostante le contraddizioni politiche, legislative e istituzionali, ha infrastrutturato il sistema del welfare nelle amministrazioni locali che hanno aderito volontariamente alla rete dei servizi di accoglienza e integrazione. Si sono sviluppate così, nei piccoli e grandi Comuni italiani, una pluralità di pratiche di tutela dei beneficiari, nuove comunità di lavoratrici e lavoratori costituite da centinaia di figure professionali (operatori legali, psicologi, educatori, mediatori, ecc.)  che con molta probabilità avrebbero abbandonato la regione dei numeri negativi (come dargli torto). Innanzitutto migliaia di donne, giovani, famiglie, minori hanno intravisto l’opportunità di ricostruire i propri percorsi di vita e di acquisire i diritti fondamentali che nei rispettivi paesi d’origine gli erano stati negati.

Ma non tutta l’accoglienza brilla di solidarietà e di qualità professionale se rapportata alla superiore finalità di tutela dei diritti delle persone che, è una pena ricordarlo, fuggono da ingiustizie, persecuzioni, fame, guerre, catastrofi climatiche. Il risultato di un’accoglienza “senza qualità” non è conseguente solo ad appetiti a volte affaristici, è piuttosto l’esito prevedibile di scelte politiche e istituzionali di natura emergenziale: si è prediletto il concentramento di grandi numeri di persone in strutture che non avevano alcun vincolo rispetto agli standard di servizio che nelle esperienze degli ex Sprar/Siproimi  avevano invece “evitato tensioni sociali, sprechi e facilitato i processi di inclusione sociale”.

Le politiche dell’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati sono notoriamente di competenza del Ministero dell’Interno, e così nella pianificazione del welfare sociale, di competenza regionale e comunale, prevale l’approccio securitario piuttosto che quello volto all’integrazione. Basterebbe rivolgere lo sguardo alle straordinarie iniziative di rigenerazione comunitaria che hanno caratterizzato le diverse e più disparate aree urbane e interne della Calabria. La materia dell’immigrazione non è un tema che riguarda gli “addetti ai lavori”, è una determinante dell’idea di comunità condivisa, del metodo con cui affrontare un fenomeno sociale che riguarda gli sconvolgimenti demografici, la cura delle persone, le filiere economiche, sociali e produttive, la riqualificazione delle aree a rischio di spopolamento.

A distanza di molti anni corriamo invece il serio rischio di un arretramento delle pur minime conquiste acquisite, a discapito di ogni forma di pregiudizio xenofobo.

Con la recente legge 173/2020 si rinomina il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI) in SAI – Sistema di accoglienza e integrazione, in attesa che un Decreto Ministeriale riformi i criteri organizzativi e gli standard di servizio delle strutture d’accoglienza.

E’ il momento per richiedere una riforma complessiva delle politiche per l’immigrazione!

Stiamo attraversando una fase storica che ci consente di analizzare i primi risultati di queste politiche, e così valutare quanto di buono o di opportunistico sia stato effettivamente realizzato, e quanto di strategico e innovativo possa ancora essere organizzato e strutturato, con innegabili benefici per tutto il paese.

E’ per questo motivo che ho raccolto le proposte elaborate da una rete diffusa di associazioni che si riconoscono sotto la sigla di “EUROPA ASILO”, proposte che ho inteso rilanciare in estrema sintesi in questa sede, non solo per dovere di informazione ma per  contribuire ad un’altra visione del mondo accogliente.

Le 7 tesi :

1) COSTRUIRE UN SISTEMA UNICO DI ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE:

E’ fondamentale: a) definire gli standard di accoglienza, perché siano uniformi su tutto il territorio nazionale; b) prevedere il coordinamento generale del sistema di accoglienza, perché siano evitate situazioni eccessivamente difformi nelle diverse aree geografiche.

2) GOVERNANCE MULTILIVELLO AL PARI DEGLI ALTRI SERVIZI PUBBLICI:

Ricondurre la gestione dei servizi di accoglienza all’ambito di applicazione della legge 328/2000, riconoscendo che il sistema ordinario di accoglienza deve essere parte integrante del welfare nei diversi livelli di governance: nazionale, regionale e locale, così superando l’impostazione data dal Dlgs 112/98, che radica la competenza nel solo Ministero dell’Interno.

3) RUOLO DEL TERZO SETTORE E AFFIDAMENTO

Si ritiene che vada superata la ambiguità rispetto al ruolo del terzo settore nell’organizzazione del sistema di accoglienza, e il connesso annoso problema della modalità di affidamento del servizio. Pertanto gli Enti Locali potrebbero ricorrere a strumenti e procedure più coerenti con la natura delle prestazioni da svolgere.

4) EQUIPE MULTIDISCIPLINARI TERRITORIALI COME RISORSA DEL TERRITORIO

L’accoglienza è una risorsa per lo sviluppo e la salute dei territori e della comunità. A tale fine è fondamentale valorizzare e consolidare pratiche di accoglienza che:

  • utilizzano una metodologia di rete connettendo attori pubblici, soggetti privati rappresentativi del mondo produttivo, privato sociale e singoli cittadini;
  • favoriscono un approccio alla multidisciplinarietà territoriale dell’intervento;
  • coniugano il bisogno di pianificazione sociale degli interventi con il lavoro di comunità quotidianamente svolto dall’operatore;

5) NUOVO SISTEMA DI VALUTAZIONE: SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA E IMPATTO SOCIALE

Anche sulla base di esperienze già realizzate è necessario che alla valutazione storica, incentrata sulla concordanza tra capitolati e servizi e tra finanziamento erogato e rendicontazione, venga aggiunta la valutazione del processo sociale sotteso all’accoglienza.

6) SUPERAMENTO DEL MODELLO CAS (Centri di accoglienza straordinaria): OBIETTIVO GENERALE E STRATEGIA DI BREVE E MEDIO PERIODO

Ampliare al massimo la capienza del SAI ma anche ripristinare standard adeguati di accoglienza e di servizi alla persona nei CAS che, nel periodo 2018-2020, hanno subito un generale processo di radicale contrazione degli standard minimi di accoglienza, compromettendone spesso la funzionalità e dando vita a situazioni di serio degrado.

7) ENTE NAZIONALE PER IL DIRITTO DI ASILO, REGISTRO DEGLI ENTI DI TUTELA

Occorre prevedere un Ente nazionale per il Diritto d’asilo a garanzia e tutela del sistema, la cui terzietà ed indipendenza è da ritenere fattore centrale nella governance del sistema, perché volto alla tutela di tutti gli attori (enti locali, enti di terzo settore, persone accolte) che vi prendono parte.


Il museo di Reggio racconta una Calabria antica e nuova

Fonte: L’Eurispes.it

Maurizio Lovecchio

Turismo e cultura sono un binomio fondamentale: ne è convinto Carmelo Malacrino, Direttore del Museo Nazionale di Archeologia di Reggio Calabria. Nell’intervista rilasciata al nostro magazine, racconta quanto il polo museale che accoglie i Bronzi di Riace, uno dei simboli per eccellenza dell’arte antica, sia diventata una occasione di rilancio e vetrina ideale per mostrare a visitatori da tutto il mondo la ricchezza storica e territoriale dell’intera Calabria.

Direttore, nel 2019, l’anno precedente al blocco imposto dalla pandemia da Covid-19, il Museo Nazionale di Reggio Calabria ha registrato 227mila visitatori, ponendosi con un risultato straordinario anche in controtendenza rispetto al calo che hanno invece registrato altri musei anche più importanti. Oltre alla capacità attrattiva che presentano i Bronzi di Riace, che cos’altro ha funzionato ed è alla base di questo successo?

Diciamo che è stato il raggiungimento di un obiettivo che abbiamo costruito negli anni precedenti. Il museo ha riaperto al pubblico il 30 aprile del 2016 e da allora abbiamo lavorato in efficienza, accoglienza e puntando sulla sicurezza e sulla comunicazione, cercando di far capire al pubblico che il museo è Bronzi di Riace, ma anche tanto altro come le grandi collezioni straordinarie della Calabria antica. Poi è stata un’altra tappa del percorso di profondo legame con la comunità del territorio che trovava proprio nel museo il luogo della cultura della città. Quindi anche grazie alla programmazione estiva, penso ai tanti eventi organizzati con i partners istituzionali – il Parco Nazionale dell’Aspromonte, il Conservatorio Cilea, il Planetario Pitagora – e ai tanti amici che hanno voluto collaborare per fare del museo un luogo inclusivo, dinamico, aperto a tutti. Questo lo abbiamo fatto, come dicevo, anche sulla terrazza, in un luogo fortemente suggestivo affacciato sullo Stretto, e di sera un posto veramente splendido.

Abbiamo già citato i Bronzi di Riace come fenomeno di attrazione principale del Museo Nazionale di Reggio Calabria. Spesso le due statue sono state al centro di polemiche, dibattiti, soluzioni fantasiose, proposte discutibili. Qual è il suo rapporto personale con queste due “ingombranti” presenze e quali altre collezioni ci sono e sono degne di altrettanta attenzione?

Non le definirei “ingombranti” ma magnifiche, straordinarie, fanno del museo di Reggio un grande attrattore non soltanto della Calabria ma di tutta l’Italia. Registriamo turisti che raggiungono appositamente questa città da qualsiasi parte del mondo (Australia, America Latina, Stati Uniti, Estremo Oriente), quindi i Bronzi sono capaci di attrarre amanti dell’arte greca da ogni luogo. In realtà non mettono in ombra il resto delle collezioni ma le valorizzano, nel senso che moltissimi turisti arrivano al museo di Reggio immaginandolo come casa dei Bronzi e in realtà trovano il grande museo della Calabria antica. Un museo allestito per raccontare la straordinaria storia della Calabria antica – dalla Preistoria fino alla tarda età Romana – su quattro livelli con una selezione di reperti fra i più importanti tesori dell’archeologia calabrese. È difficile dire quale pezzo sia più importante di un altro, perché poi ciascun reperto esposto è il protagonista di una storia diversa, di un piccolo capitolo di questo libro che è la storia della Calabria antica (penso alla testa dell’acrolito di Apollo proveniente da Cirò, ma anche la testa di Porticello, la testa del Filosofo, opere note in tutto il mondo e presenti nei principali volumi di storia dell’arte greca).

Alcuni suoi colleghi, direttori di importanti musei italiani, hanno pubblicato una lettera su Artribune rendendo nota un’idea, un’ipotesi di rilancio dei musei nel periodo post-Covid, suggerendo, di fatto, la trasformazione, o l’esigenza di trasformare i musei in luoghi prettamente di memoria e di conservazione della cultura in luoghi di ricerca, e quindi aperti anche a percorsi formativi che guardano al futuro. Lei è d’accordo con questa idea?

Non solo sono d’accordo, ma è quanto noi stiamo facendo da qualche anno qui al Museo. Questo non è soltanto un contenitore di oggetti, ma è un luogo nel quale raccontare le storie che vengono testimoniate da questi oggetti. È un luogo nel quale assicurare la conservazione delle collezioni per poterle poi consegnare alle future generazioni, quindi un posto nel quale si fa restauro, si fa ricerca sulla conservazione e sui reperti, sia su quelli esposti, sia sulle tante collezioni che sono conservate nei depositi e che rappresentano il grande potenziale di ciascun museo. Queste storie le raccontiamo all’interno di tante esposizioni, penso alle numerose mostre che abbiamo allestito proprio per arricchire l’offerta espositiva del museo. Qui, per esempio, ho uno degli ultimi cataloghi realizzato, dedicato alla mostra su Paolo Orsi,, all’origine dell’archeologia fra Calabria e Sicilia che segna anche una straordinaria sinergia con la Sicilia e con il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa nell’intenzione di voler mettere insieme le collezioni calabresi e siciliane per raccontare la storia di questo eccezionale archeologo della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Un’attenzione alla narrazione delle collezioni che riguarda tutti, a partire dai bambini, soggetti ai quali affidiamo grande attenzione. Qui ho, ad esempio, l’offerta formativa didattica che abbiamo proposto per i laboratori dedicati ai più piccoli. Una serie di laboratori differenziati per età e dal punto di vista tematico. Poi, ovviamente, i rapporti con le Università, i luoghi preposti alla ricerca e tante sono le collaborazioni che stiamo portando avanti per poter permettere alle Università di studiare le nostre collezioni, farcele conoscere meglio in modo tale che noi stessi possiamo valorizzarle nella maniera più efficace.

Questa estate, analizzando i flussi turistici in Calabria, la nostra sede regionale dell’Istituto Eurispes ha raccolto dati positivi, che hanno premiato la Calabria quale meta preferita da molti vacanzieri. Tra gli attrattori turistici che abbiamo analizzato e registrato in questa nostra ricerca c’è il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Secondo Lei, la presenza sul territorio di un museo importante, quanto influisce sulle scelte e quindi sulle preferenze turistiche e quale connessione vede proprio tra turismo e cultura in particolare per lo sviluppo della Calabria?

La presenza di un luogo della cultura così importante come il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria è fondamentale per il turismo di questo territorio. Dobbiamo sempre ricordare che questo museo non è il museo di Reggio Calabria, ma è il museo dell’intera Regione, quindi raccoglie e mette insieme reperti provenienti da ogni parte della Regione proprio per raccontare in una narrazione continua quella che è stata la storia della Calabria nell’antichità. Quindi è un polo di attrazione culturale non soltanto per Reggio ma per tutta la Regione. Al tempo stesso diventa l’inizio di un percorso di scoperta per gli altri luoghi della Regione, perché i tanti turisti che raggiungono Reggio Calabria e che raggiungono il nostro museo attratti dai Bronzi di Riace scoprono le vetrine dedicate a Locri, le vetrine dedicate a Vibo, a Rosarno, a Sibari, e quindi nasce dentro di loro anche la curiosità di intraprendere un percorso alla scoperta di questi luoghi straordinari. Turismo e cultura sono un binomio fondamentale. Quanto abbiamo registrato circa l’impatto della riapertura del museo il 30 aprile del 2016 sul tessuto economico della città ci fa capire che il museo è un forte attrattore, ha un impatto sui ristoranti, sui bar, sugli alberghi, che è stato notevole e questo ci è stato comunicato sia da Federalberghi che dalla Camera di Commercio con cui collaboriamo attivamente proprio per creare un’offerta turistica a 360 gradi e partecipare e anche supportare il tessuto economico e culturale del territorio. All’interno di un progetto di collaborazione che coinvolge non soltanto l’aspetto strettamente culturale, quindi i rapporti con gli altri musei, penso alla Pinacoteca Civica, al Piccolo Museo San Paolo, al Castello Aragonese, ma abbiamo lavorato molto anche sul connubio cultura-natura, quindi stringendo un profondo legame con il Parco Nazionale dell’Aspromonte, proprio per far sì che anche i visitatori del museo potessero proseguire o iniziare un viaggio alla scoperta dello straordinario paesaggio dell’Aspromonte. Tirando le somme dei percorsi di questi anni direi che l’impatto del museo sul turismo del territorio è stato notevole ma non può essere che un invito a lavorare ancora di più, sempre meglio e tutti insieme, per far sì che l’immagine che a volte caratterizza la Calabria possa essere rinnovata, possa essere affiancata da un’immagine positiva, basata su patrimonio culturale ricchissimo, l’immagine di un territorio che ha accolto e continua ad accogliere culture da ogni parte del Mediterraneo e possa essere anche l’immagine di un territorio proiettato verso il futuro.

 


Una passeggiata tra le rovine di Scolacium in un verde lussureggiante

Bakhita Ranieri

Sembra un sogno ma a pochi km da noi si trova un parco archeologico in località Roccelletta di Borgia, vicino la S.S. 106 che collega Crotone a Reggio Calabria. Circondato da un folto uliveto si estende per 35 ettari di terreno. Al suo interno si trovano la Basilica di Santa Maria della Roccella, il Foro romano che abbraccia molti secoli dal III a.C. al VI d.C. in cui sono collocati gli edifici principali della colonia romana, il teatro, datato al I sec. d.C. in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali, rimasto incompleto, l’anfiteatro romano datato al II sec. d.C., messo in luce durante uno scavo di pochi anni fa e la necropoli bizantina.

Da lì sarà piacevole, tempo permettendo, osservare l’intera costa che abbraccia Catanzaro Lido fino a Soverato. Il parco ospita anche due musei, quello del frantoio, in cui sono istallate le macchine che servivano per produrre l’olio, in uso fino agli anni cinquanta e quello archeologico che si sviluppa su due piani composto da 11 sale con i reperti rinvenuti durante le campagne di scavo dal 1975 fino a qualche anno fa.

Immergiamoci quindi in questa passeggiata virtuale con il tepore che ci regala la primavera.

Roccelletta di Borgia prende il nome dalla Chiesa di Santa Maria della Roccella, che domina il territorio con la sua mole di mattoni rossi in prossimità del mare, non lontano dal fiume Corace. Di epoca bizantino-normanna è costituita da un’ampia navata con un tetto a cassettoni in legno collegato da alcuni gradini al braccio sopraelevato coperto con volte in muratura.

Il vasto presbiterio termina con una profonda abside affiancata da due absidiole più piccole che concludono ambienti a pianta quadrata. Nell’abside centrale si aprono tre nicchie, sormontate da un’ampia finestra, finestre si aprono anche nelle due absidi laterali. Anche la navata è illuminata da una serie di finestre intervallate da archi ciechi con un motivo decorativo a doppia fascia di laterizi.  L’edificio venne in seguito trasformato in fortezza, sono stati rinvenuti infatti proiettili di pietra per catapulta. Nella seconda metà dell’800 fu impiegata come ricovero di animali e come cava di materiali da costruzione.

Continuiamo la nostra piacevole passeggiata e arriviamo al Foro, che costituisce la principale piazza di ogni città romana. È collocata all’incrocio tra due assi viari principali, il cardo maximus e il decumanus maximus formando uno spazio pubblico di forma rettangolare. Qui si affacciano i più importanti edifici a carattere religioso (il Capitolium) e amministrativo (Curia, Tabularium, Tribunal). Altri edifici pubblici sono il Macellum per attività commerciali e il Comitium di riunione per i cittadini. La piazza nel corso dei secoli, dopo il terremoto del IV sec. d.C. perse la funzione di centro della città e divenne un’area per insediamenti artigianali com’è dimostrato dal ritrovamento di una grande fornace per materiali ceramici e cava di materiali edilizi.

E adesso tutti in fila per il teatro. Le ricerche che misero in luce l’edificio furono svolte tra il 1965 e il 1975. Si data al I d.C. È realizzato imbrigliando la collina con muri concentrici in opus reticulatum. Costituito da un’orchestra semicircolare e da una cavea divisa in tre settori (maeniana): quello inferiore (imma cavea) diviso in 5 cunei da sei scalette accessibili attraverso un corridoio (praecinctio) che facilitava il passaggio degli spettatori; media cavea e quello superiore (summa cavea) diviso in 4 cunei da 5 scalaria. Ai lati estremi dell’imma cavea erano due accessi (aditi maximi) che consentivano l’ingresso alla cavea e all’orchestra. La scena veniva organizzata con la costruzione del muro del palco (pulpitum), del sipario (auleum) e dello sfondo fisso (scaena frons). Poiché gli spettacoli si svolgevano di giorno, era necessario per i romani proteggere gli spettatori dalla luce attraverso il velarium, una copertura mobile in tessuto fissata con travi e ancorata ai muri per mezzo di anelli.

Ed ora su per la collina, andiamo all’anfiteatro ad assistere a qualche combattimento sanguinoso. Qui si svolgevano anche le venationes e le naumachie. Era compito dei magistrati appena eletti, per fare carriera, offrire i ludi gladiatori alla città. Destinare i condannati, per reati comuni o politici ad bestias, era un modo per spettacolizzarne l’esecuzione ed imprimerla nella memoria degli spettatori. I gladiatori che combattevano erano prigionieri di guerra o schiavi addestrati in scuole apposite gestite dai lanistae che li preparavano ai diversi tipi di combattimento. Erano praticati combattimenti crudeli in cui uno dei due duellanti era disarmato. L’imperatore, interpretando l’umore del pubblico, poteva graziare lo sconfitto levando il pollice verso l’alto, non è un caso che nel nostro linguaggio comune il nostro l’ok corrisponda allo stesso simbolo, il gesto contrario significava la morte. La sera prima dello spettacolo, i gladiatori partecipavano ad un banchetto a cui assisteva un pubblico di affezionati. Una forma particolarmente crudele di spettacolo era quella in cui i condannati a morte erano impiegati per rappresentare episodi cruenti dei miti. Il nostro anfiteatro, si data al II sec. d.C. di dimensioni considerevoli, è l’unico finora attestato in Calabria ed uno dei pochi dell’Italia meridionale situato in una piccola valle. La parte occidentale dell’edificio sfrutta il pendio della collina, la parte orientale fu costruita in elevato con laterizi e più ordini di arcate sovrapposte inquadrate da lesene.

Le campagne di scavo sono state effettuate nel 2010-2011 l’impianto presenta muraglioni radiali in opus incertum cinte di mattoni basate su uno schema ellittico. Fu realizzato con strutture che creano vani trapezoidali privi di finestre ed in parte costruendo cassoni sotterranei su cui si impiantavano le gradinate della cavea. Sul settore orientale si trova una struttura cava, la parte più bassa fungeva da entrata (vomitorio). Ai lati erano posti due vomitori minori che permettevano agli spettatori di raggiungere i settori superiori della cavea. Della facciata esterna si conservano parti in opus incertum e opus testaceum. Tra fine III e IV secolo un settore abbandonato dell’edificio fu occupato da una sontuosa dimora posta su varie terrazze su cui si sovrappose tra V e VI secolo un’altra costruzione con poderose fondazioni che sfruttano in parte i resti dell’anfiteatro.

E la nostra ultima tappa esterna ci porta alla necropoli, la città dei morti. Per non invadere lo spazio sacro della città (pomerium), era collocato all’esterno. Si data tra il VI- VII sec. d.C. Presenta due fasi principali di utilizzo: la prima è caratterizzata da tombe a cassa rettangolare, orientate in direzione del mare, con sepolture dotate di corredo. Il defunto era appoggiato con il capo su una tegola rovesciata, le coperture erano in tegole o in grandi laterizi. La seconda fase è caratterizzata da tombe in nuda terra molto semplici prive di corredo. Le deposizioni potevano essere plurime ed i corredi costituiti da manufatti in metallo, vetro e ceramica. Tra le brocchette, che costituiscono il corredo più diffuso in questo periodo, è stato rinvenuto un prodotto tipicamente scolacense. Si tratta di una specie di bottiglia a due anse sia acroma che sovra dipinta in argilla rossa.

Siamo pronti per entrare nel Museo del Frantoio. La famiglia Mazza era proprietaria di numerosi latifondi sparsi nel comprensorio borgese in cui predominavano le colture del grano e dell’olivo.

La costruzione del trappito avvenne intorno al 1934, aveva un pavimento in materiale impermeabile e facilmente lavabile ottenuto con una gettata di cemento povero. Per la macinazione delle olive furono utilizzati i locali del pian terreno della casa padronale. Qui furono installate tre macine con ruote di granito per triturare le olive senza innalzare la temperatura della pasta e otto pressette a tre colonne. Sul lato lungo troviamo invece le pressette da 8 e l’impianto della pompa idraulica ubicata vicino l’ingresso. La conservazione dell’olio avviene nelle classiche giare di terracotta. La mole e le pressette venivano azionate dal motore detto “a testa calda” per il suo particolare sistema di accensione nel motore.

La nostra ultima tappa ci porta a visitare il Museo Archeologico inaugurato nel 2005. La storia di questo parco è scritta su due targhe poste sui cancelli di ingresso lungo la superstrada 106 Jonica. Le sale, disposte su due piani, si susseguono dalla prima, l’età preistorica e protostorica, includono l’età greca dell’antica colonia di Skylletion per passare all’età romana con testimonianze numismatiche, manufatti, marmi raffinati e togati che catturano i visitatori di tutto il mondo, per finire all’undicesima sala che racchiude la testimonianza del passaggio dell’età bizantina.

Ma non è finita qui. Mentre si passeggia alla scoperta di questi ruderi immersi in un’atmosfera che ci riporta indietro di molti secoli, abbiamo la possibilità di immergerci anche nella natura. Infatti possiamo trovare piante di quercia tipica della macchia mediterranea, utilizzata come legna da ardere; il pioppo usato nell’industria cartiera; il biancospino usato nell’industria farmaceutica grazie alle sue proprietà sedative e rilassanti; il leccio, uno dei migliori legni da ardere poiché produce molto calore e si consuma lentamente e tantissimi ulivi secolari della varietà Carolea, olivo sia da mensa che da olio. Poi ancora mandorli, peri selvatici.

E parliamo un po’ anche di leggenda per attrarre i più piccini partendo dalla storia di Atena e la Cornacchia. Tante cornacchie continuano a vivere qui.

Athena Skylletria è il nome di questa colonia greca fondata nel Golfo di Squillace e dedicata alla potente dea protettrice della città di Atene. Divenuta una colonia romana la città non smise di essere consacrata alla dea assumendo la denominazione di Minerva Scolacium.
Zeus divise le competenze fra gli dei al fine di definire un ordine e per farlo doveva necessariamente fare una serie di “matrimoni”, unendosi ad entità divine che gli conferissero dei valori e dei poteri di cui aveva bisogno. Si unì infatti con Metis, la Saggezza. Da questa unione stava per sarebbe nata Atena, la dea della Saggezza per eccellenza. Il Signore degli dei però pensò che la figlia avrebbe potuto essere più forte del padre e quindi il suo trono avrebbe potuto essere in pericolo. Chiese consiglio al Cielo Stellato e alla Terra che gli suggerirono di inghiottire Metis la sua sposa, in modo che Atena potesse nascere direttamente da lui. Finalmente nacque con le sembianze di una fanciulla, vestita con il peplo, dai lunghi capelli raccolti e con un elmo, uno scudo e una lancia è armata perché deve difendersi. Le è sacro l’albero d’ulivo perché è una pianta preziosa, nelle antiche monete ateniesi, è raffigurata insieme a una civetta, l’animale sacro.

Ci fu un tempo in cui la dea però aveva come suo animale sacro proprio la nera cornacchia. Cheronea era una principessa della Focide, figlia di un re, era una ragazza era molto bella, desiderata e seducente. Mentre passeggiava lungo la riva del mare, il dio degli oceani, Poseidone, potente fratello di Zeus, la vide e si innamorò. Prima cercò di sedurla con parole dolci, poi l’avvinghiò fra i suoi flutti cercando di possederla e farla sua con la violenza. La giovane stava per soccombere sotto la forza brutale di quel dio violento e impulsivo, quando le venne in aiuto la vergine Atena che per liberarla dalla morsa di Poseidone le donò le sembianze di un uccello nero. La fanciulla vide il suo peplo mutarsi in piume e le sue braccia in ali. La dea dunque la consolò e le concesse di divenire il suo animale sacro.

Atena aveva però un grande segreto. Era stato riferito ad Efesto, il dio del fuoco, che la vergine dea smaniasse d’amore per lui che era vecchio e zoppo. Appena saputo, l’assalì e tentò di farla sua. Per la guerriera non fu difficile respingere la forza brutale del dio, ma l’eccitazione del dio era tale il seme non cercato del dio del fuoco le cadde addosso e lei con sdegno si pulì con un panno di lana che gettò schifata a terra.

La Terra fecondò quel seme nacque così un essere mostruoso: Erittonio ad Atena non rimase altro che rinchiuderlo in una cesta e lo consegnò a tre fanciulle chiedendo di fare la guardia, ma vietando assolutamente di aprire quel paniere magico. Come supervisore mise la sua fidata cornacchia.

Le fanciulle obbedirono al volere della dea, ma quel paniere le incuriosiva molto perché dal suo interno si sentivano provenire gemiti e vagiti. Fu una delle tre a decidere di aprire la cesta, le altre non erano molto d’accordo ma la stranezza di quell’involucro misterioso le affascinava e le atterriva allo stesso tempo. La povera cornacchia si accorse di quello che stava accadendo ma non fece niente e stette a guardare anche lei lo strano contenuto della cesta magica. Quando aprirono il coperchio le fanciulle videro un bambino straordinario e mostruoso insieme per metà umano ma con le gambe formate da spire di serpenti e disgustose squame di rettili.

Solo a quel punto la cornacchia volò via per avvertire Atena, ma ormai era troppo tardi, aveva tradito la sua fiducia e niente la poteva riabilitare agli occhi della dea. La sua punizione fu dura la dea la ripudiò per sempre e da allora scelse come animale a lei sacro la civetta.

Se ho catturato la vostra attenzione allora dovete venire ad assaporare i colori e i profumi di questo luogo e vi assicuro che ne rimarrete entusiasti.


DISTRETTI DEL CIBO – incontro sul tema, Calabria Condivisa guarda all’imminente bando regionale

Già apparso in fase di preinformazione, sta per essere pubblicato il bando regionale che attua la normativa nazionale sulla nascita dei c.d. “Distretti del Cibo“. Calabria Condivisa organizza quindi un incontro dibattito sul tema, raccogliendo esperti e organizzazioni del settore, per discutere delle prospettive che apre il bando, della struttura dei futuri Distretti, delle opportunità ma anche della organizzazioni tra territori e filiere, per usare la novità come una risorsa per la Calabria.

L’incontro potrà essere seguito sulla pagina del Gruppo Calabria Condivisa https://www.facebook.com/groups/www.calabriacondivisa.it , alle ore 17,00 del 7 Aprile 2021. 


Il futuro del Mezzogiorno: chiamare le nuove generazioni a progettare

Maurizio Lovecchio

Dal primo lockdown fino a dicembre 2020 il 52,3% delle imprese calabresi è rimasto chiuso e oltre il 58% non ha fatturato o ha fatturato meno del 50%. La Calabria, come tutto il nostro Meridione, ha bisogno di agganciare le opportunità messe in campo dal Next Generation EU. Ma come fare? Quali sono gli obiettivi prioritari per favorire la ripartenza della Regione. Ne abbiamo parlato nella nostra rubrica Il punto a Mezzogiorno con Fortunato Amarelli, Presidente di Confindustria Cosenza. 

Presidente, che cosa serve per affrontare la crisi e favorire la ripartenza?

Indubbiamente servono molte cose: per prime le risorse, che sono state in qualche modo già predisposte in maniera anche ampia. Serve, poi, una grande capacità di pensare al futuro e a quello che possiamo costruire insieme. Credo che serva anche una certa mentalità verso la crescita: si esce da questa crisi non soltanto attraverso i decreti, non soltanto grazie alle risorse. Si esce dalla crisi se ognuno di noi nel proprio lavoro – e non parlo soltanto degli imprenditori ma di chiunque, anche dei cittadini – comincia a pensare che il bene comune viene prima di ogni altra cosa. Quindi, se tutti ragioniamo in termini di comunità, piuttosto che in termini di individualità, credo che riusciremo ad imboccare la giusta strada per uscire dalla crisi.

Lei ha fatto riferimento alle risorse e alla copertura degli investimenti che sicuramente ci saranno. Il Next Generation EU prevede molte risorse per investimenti da realizzare anche al Sud. Quali errori non dovremmo commettere, soprattutto qui in Calabria, per non sprecare questa ennesima opportunità che ci offre l’Europa e questa possibilità di spendere fondi pubblici per rilanciare lo sviluppo della Calabria?

Intanto, direi che non è una questione solo di risorse. O meglio, non è una questione di quantità di risorse. La Calabria è una Regione che ha bisogno sicuramente di aiuti economici come tutto il resto dell’Europa, ma ha soprattutto bisogno di progettazione e di capacità di progettazione. Credo che oggi uno degli investimenti che dovremmo fare sarebbe quello di migliorare la capacità di progettazione della Pubblica amministrazione.

E, inoltre, pensare alle imprese, l’altro fondamentale interlocutore con il quale poi si confronteranno i Next Generation EU. Questi sono fondi destinati a far crescere il nostro Paese nei prossimi 50 anni, questo è il tema. Stiamo investendo l’ammontare di circa 3 finanziarie in un unico anno. È come se oggi mettessimo le risorse stanziate in tre anni in un’unica programmazione. Quindi, capite bene, che è una quantità di denaro importante, e deve esserci la capacità di traguardare i progetti che non devono essere fine a se stessi, di breve durata, ma dovranno essere il mezzo per recuperare e dare una crescita importante anche in futuro. Allora, forse, sarebbe fondamentale – proprio perché si chiamano Next Generation EU – chiamare a progettare la nuova generazione, evitando di tirar fuori dai cassetti progetti polverosi e fare invece progetti soft, provare a chiedere ai giovani che cosa funzionerà tra 50 anni, perché gli investimenti che facciamo oggi dovranno essere investimenti che daranno i loro frutti nel lungo periodo.

Il Premier Draghi nel suo discorso al Senato ha detto: «Lo Stato ha il dovere di aiutare tutti, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente, e toccherà alla politica aiutare le imprese a sobbarcarsi di questo cambiamento». È d’accordo con questa affermazione? Quali attività dovremmo tutelare e rilanciare in Calabria?

Io credo che in questo il Premier Draghi abbia voluto dirci una cosa molto importante e secondo me molto vera. Ricordo una frase, che a me piace molto, di Henry Ford che diceva: «Conosco soltanto due tipi di aziende: quelle che cambiano e quelle che chiudono». Anche i business più tradizionali, le aziende più longeve, hanno avuto bisogno di rinnovarsi quotidianamente ed innovare quotidianamente il proprio modello di business. L’innovazione è fondamentale, è una grande opportunità perché è un grande driver di sviluppo e di crescita, ma anche una grande necessità.

Quante aziende abbiamo visto chiudere proprio perché arriva sul mercato un’innovazione tecnologica? In realtà, probabilmente quelle aziende finiscono, esauriscono il loro modello di business, perché non sono riuscite ad interpretare il nuovo che stava arrivando. Quindi credo che Draghi intendesse principalmente questo. È ovvio che, se dobbiamo fare un ragionamento di politica economica nazionale e se io oggi dovessi decidere su che cosa puntare, certo proverei a immaginare di diventare leader in Italia di alcune sotto-categorie. Perché oggi diventare azienda leader (con un panorama di utenza e di distribuzione a livello globale) può sicuramente favorire la stabilità del Paese e della sua economia. Ci sono alcune aziende, alcuni particolari business, nelle quali già siamo leader, che non sono le grandi categorie ma alcune sottocategorie nelle quali, se io fossi oggi il Presidente del Consiglio, investirei a prescindere, magari anche con capitale pubblico. Oggi dobbiamo conquistare alcune leadership di mercato globale se vogliamo essere ancora la settima potenza industriale del mondo.

Innovazione e ricerca: proprio qualche giorno fa Confindustria Cosenza ha siglato un’intesa con un l’Università della Calabria per monitorare la creazione di nuove startupCome imprenditore cosa consiglierebbe ad un giovane talento laureato all’Unical che dovesse decidere di intraprendere e di restare in Calabria?

Innanzitutto, è importante puntare sulle attività tradizionali, anche se su di esse probabilmente c’è già una dimestichezza acquisita dei nostri giovani. Allo stesso tempo, credo però che l’innovazione rappresenti il più grande driver di crescita economica. Se pensate che oggi, nel mondo, le più grandi aziende sono imprese nate meno di 30 anni fa, allora significa che dobbiamo fare i conti con un dato incontrovertibile, e cioè che lo sviluppo viaggia attraverso l’innovazione. Quindi, arrivare per primi è uno dei vantaggi competitivi più importanti per fare impresa, che ci sia alla base un business tradizionale o un business altamente tecnologico, come tutti quelli che vengono fuori anche dagli spin-off della ricerca dell’Università della Calabria, l’importante è arrivare per primi sul mercato. Questo è di fondamentale importanza. Riguardo al settore, penso a tutto il mondo IOT (Internet of Things), e penso al mondo della sensoristica presente in azienda per le indagini preventive. Tra l’altro, l’Europa vuole a tutti i costi che le industrie diventino 4.0. Se pensiamo che in questo momento gli investimenti in industria 4.0 sono finanziati all’85% di credito di imposta, il messaggio a favore della digitalizzazione delle industrie appare chiaro. La transizione digitale deve essere effettuata in tempi veloci, è un punto fondamentale e strategico per tutto il sistema. Quindi non c’è dubbio che in questo campo ci sarà sempre grande fermento anche nei prossimi anni.


Italiana: il nuovo romanzo di Giuseppe Catozzella

Mimma Sprizzi

Provate ad avvicinare molto agli occhi qualcosa che volete vedere molto bene, volete farlo  perché avete l’urgenza di comprenderla a fondo. Quello che accadrà anche avendo una vista perfetta sarà di vedere l’oggetto della vostra indagine in modo sfocato e per nulla chiaro. Bisogna allontanarsi dall’oggetto per guardarlo a fondo, per ottenere la nitidezza dell’immagine che vi porterà alla verità. Con questa prospettiva ben chiara, leggere Italiana di Giuseppe Catozzella aiuta a capire visceralmente la Calabria, l’Italia, la guerra civile per l’unità, e perfino l’enorme senso di libertà e di dignità che alberga in chi crede nel sogno di un mondo migliore. La narrazione insomma di un mondo lontano, distante quanto basta per comprenderlo realmente.

La vicenda raccontata in Italiana si dipana poco prima dell’Unità di Italia.

E’ la storia di Maria Oliverio, nata nella miseria di una terra povera, quella della Sila calabrese contadina e montanara. La vita non è semplice: Maria trascorre gli anni prima dell’adolescenza in una casa alle pendici del bosco. Zia Maddalena, soprannominata “Zia Terremoto”, sarà per anni la sola persona con cui dividere le giornate, poiché anche la donna era rimasta sola dopo che il marito era andato a vivere nei boschi. Maria cresce conoscendo la miseria e la fatica, il sacrificio e la rassegnata sottomissione delle donne, donne che però imprimono nell’animo della bambina Maria il senso di libertà e giustizia, che la porterà ad essere la prima brigantessa del sud Italia.

Gli echi degli insegnamenti di sua nonna dovevano accompagnarla nei boschi. Quella nonna vissuta in un piccolissimo villaggio di montagna sopra Lorica, che ripeteva senza sosta che in montagna “Non ci sono i padruni!  in montagna i padroni non ci arrivavano e si viveva con il cuor più leggero”

Maria sceglie la rivolta, la resistenza a quella che vive come una guerra che li libererà dalla sottomissione , e dalla povertà. Diventa La brigantessa Ciccilla. E’ legata alle sue radici, Teresa, legata a quello che aveva saputo dalla  “zia Terremoto”,  inghiottita anche lei dal bosco della montagna per seguire il marito che insieme ad altri compagni, assaltava le masserie dei nobili e dei gentiluomini, cercando di non fare feriti; poi tornava in paese e divideva il maltolto con i braccianti.
– Fa come fa il bosco- aveva detto zia- si riprende ciò che è suo – Ziu’ tiene a testa china i suogni- suogni di un avvenire giusto, suogni grandi-”

Ciccilla è diversa,  si taglia i capelli, vive come un uomo, combatte con il coraggio di una donna.  Le fa compagnia una lupa addomesticata, anche lei simbolo vivente di bellezza e forza.

Ciccilla diventa famosa: di lei scrivono i giornali, delle sue gesta racconta perfino Alexandre Dumas.

“Ciccilla passa la giovinezza nei boschi, apprende la grammatica della libertà, legge la natura, impara a conoscere la montagna, a distinguere il giusto dall’ingiusto, e non teme di battersi, sia quando sono in gioco i sentimenti, sia quando è in gioco l’orizzonte ben più ampio di una nuova umanità. Il volo del nibbio, la muta complicità di una lupa, la maestà ferita di un larice, tutto le insegna che si può ricominciare ogni volta daccapo, per conquistarsi un futuro come donna, come rivoluzionaria, come italiana di una nazione che ancora non esiste ma che forse sta nascendo con lei”

Una Calabria bellissima dunque, piena di poesia, di forza, di miseria ma anche di grande voglia di riscatto. La fotografia di una terra che vorremmo ci somigliasse di più.